Chapter 7 No.7

Per Felice Cavallotti.

Sono trascorsi sette giorni; alla prima oppressione dello sgomento e del dolore, che ci oscurarono lo spirito e ci strapparono il pianto dal cuore, è succeduta la tristezza profonda e lucida, che ricorda, medita e lamenta: eppure non possiamo ancor pronunziare senza un fremito d'angoscia ribelle a ogni rassegnazione, senza una ripugnanza del cuore incredulo e delle labbra tremanti-come se fossero un'orribile menzogna, queste tre sciagurate parole:-Felice Cavallotti non è più!-Noi non possiamo rassegnarci a pensare:-Altre ingiustizie pubbliche, altre violazioni della libertà, altri conati della reazione si succederanno,-ed egli le ignorerà; la patria patirà nuovi dolori, correrà nuovi pericoli, subirà forse altre vergogne-e le sue labbra taceranno; altri frodatori del comune avere, altri corruttori delle istituzioni patrie e profanatori del santo nome d'Italia compiranno le loro imprese, e la sua mano vindice-smascheratrice implacabile di tutti i mercanti del patriottismo-rimarrà inerte; supremi interessi nazionali si discuteranno, si combatteranno grandi battaglie politiche, care feste della patria, anniversari di giornate gloriose, conquiste e trionfi della libertà e del diritto si celebreranno in adunanze fraterne e solenni,-ed egli non v'assisterà. Felice Cavallotti che voleva dir forza, moto, azione, speranza inestinguibile, giovinezza perpetua-Felice Cavallotti che per noi teneva luogo d'una legione, del quale sentivamo anche da lontano l'alito possente e la voce che echeggiava sul paese come uno squillo di tromba-Felice Cavallotti che la nostra immaginazione, precorrendo il tempo, godeva a rappresentarsi ancora operoso e combattente nell più tarda vecchiaia, circondato dalla reveranza e dalla gratitudine pubblica.... bisogna pur che ci rassegniamo a profferire, a ripetere, a configgerci nel cervello e nel cuore queste tre terribili e quasi incredibili parole:-Felice Cavallotti e morto!

Commemorarlo? A che pro, se da tanti giorni non si parla che di lui? se la sua vita intera è presente al pensiero di tutti? E com'è possibile, mentre dura intenso ancora il dolore, aver libera la facoltà che ordina i fatti, collega i particolari, chiarisce e giudica i moventi e gl'intenti delle passioni e degli atti? Altri farà questo un giorno, forse molti lo faranno, e faranno opera utile e bella. Lo prenderanno fanciullo, crescente nel seno d'una famiglia amorosa, ma più vicina alla povertà che all'agiatezza, esercitato fin dai primi anni a sopportar con animo forte le privazioni, educato agli studi severi dal padre, dotto filologo, ch'egli aiuta nei suoi lavori; spiegheranno come nella furia delle sue prime letture di libri cavallereschi abbia avuto origine quello spirito generoso, avventuroso, battagliero, irrequieto che agitò tutta la sua vita; lo seguiranno a passo a passo, da quando, poco più che fanciullo, si mette a capo d'una dimostrazione patriottica e vaticina in un opuscolo l'unificazione della Germania, via via, per le varie tappe, soldato dì Garibaldi a Milazzo e al Volturno, collaboratore dell'?Indipendente? del Dumas a Napoli, poi a Milano, studente di legge, poeta e giornalista ad un tempo, faticante per guadagnarsi il pane; poi soldato un'altra volta nel '66, combattente a Vezza, in Val Camonica; poi da capo giornalista, nella capitale lombarda, polemista baldanzoso e indomabile, che smette a ogni tratto la penna per impugnare la sciabola; tradotto di processo in processo, fuggiasco all'estero, nascosto in Milano, poetante nella prigionia, e dopo ogni processo e ogni prigionia più infiammato e più audace di prima.

E pervenuto a questo punto il biografo non sarà ancora che al principio. Egli dovrà accompagnarlo nella sua vita parlamentare per un quarto di secolo, deputato di Corteolona, di Pavia, di Milano, di Piacenza; saldo sempre nella sua fede repubblicana, ma, com'egli disse-?italiano prima, repubblicano poi?;-lottante, salvo rare e brevi tregue, contro tutti i ministeri; paladino dell'Italia irredenta, nemico dell'alleanza austriaca, oppugnatore degli armamenti rovinosi, avversario della politica affricana, denunciatore di tutte le violazioni della legge, di tutti gli abusi del potere, di tutti gli sperperi dell'amministrazione; fiero, infaticabile rivendicatore della moralità pubblica, fu istigatore di tutti i prevaricatori e corrotti e complici loro, potenti ed oscuri, nel parlamento, nella stampa, nei tribunali, nei comizi, in tutte le regioni e da tutte le tribune d'Italia. Ma dovrà aggiungere il biografo come a questa lunga e guerresca vita parlamentare, segnata di discorsi e di tempeste memorabili, egli intrecciasse ancora, quasi senza interruzione per molti anni, l'opera poetica e drammatica, alternata di dure lotte e di vittorie sudate, e come all'opera della creazione artistica accompagnasse l'opera erudita, critica e polemica, condotta con lunghi e pazienti studi, nel campo del teatro, della storia, della nuova poesia: opera interrotta alla sua volta da nuovi processi, da nuovi duelli, da nuove tempeste, da commemorazioni ispirate e memorande di grandi fatti e di grandi morti, e da faticose e ardimentose campagne elettorali; e come infine in mezzo alle lotte, alle cadute e ai trionfi, inteso sempre e soprattutto alla grande voce del paese, egli abbandonasse ogni cosa sua quando suonava il grido d'una sventura pubblica, e accorresse a Napoli e a Palermo a soccorrere e a confortar le vittime dell'epidemia col coraggio d'un eroe e con l'amor d'un fratello. Sì, ammirabile vita, nella quale i venturi, secondo i principii politici e l'indole loro, potranno trovare errori, violenze, temerità, disarmonie; ma non disconoscere una grande forza diretta da una coscienza onesta, da un profondo amore della patria, da un'ardente passione per la verità, per la giustizia, per il bene;-ma non rifiutarsi ad ammirare una maravigliosa cospirazione di virtù della mente e dell'animo, rarissime a trovarsi riunite, quali son l'impeto dell'entusiasmo e la tenacia ferrea della volontà, la vigoria infaticabile del pensiero e dell'azione, e con una nobile ambizione di gloria, col sentimento e il culto della bellezza, con la vivacità degli affetti, con tutto quello che fa bella e cara la vita, la forza d'un cuore sempre pronto ad affrontar le persecuzioni, gli odii, il dolore, la povertà, a rinunziare senza titubanza e senza rammarico a ogni bene della vita e alla vita stessa, come se per lui la pace, gli affetti, la gloria, l'esistenza non avessero valore alcuno se accettate a prezzo di una transazione con la propria coscienza a d'una violenza fatta alla propria ragione. Sì, ammirabile vita, che si può simboleggiare in questa bella figura: un soldato con la camicia rossa, con una corona di poeta sulla fronte, ritto sopra una tribuna; il quale mostra le mani alla patria per cui ha combattuto per quarant'anni con la spada, con la penna e con la parola, e le dice:-Guardate, sono pure! Non le ho macchiate mai che del mio sangue.

Vediamo ora, rapidamente, il poeta lirico, il drammatico, l'oratore, il polemista, il cittadino, l'uomo.

Poeta fu, nel più profondo dell'anima. Di poeta ebbe-per usar le parole d'un suo illustre avversario-il soffio, l'essenza alata, l'anima lirica. Non cercò nuove forme: fece sue quelle della poesia patriottica che palpitava in tutti i cuori quand'egli s'affacciò alia vita, le forme del Rossetti, del Berchet, del Manzoni. Dice egli stesso all'autore della ?battaglia di Maclodio?:-?quest'umile cetra apprese le forme da te, e il mio canto modula alla tua scuola gli accenti d'una speranza che non è più la tua?.-L'impeto della passione soverchiante non gli poteva consentire le sottili e pazienti industrie di stile e d'armonia, che più tardi vennero in onore. La sua poesia fu propriamente un canto sgorgante dall'anima, poesia di battaglia, piena dì strepito d'armi, di schianti di fulmine, di fremiti di popolo, di grida d'ira e di dolore. La successione delle sue strofe di decasillabi somiglia all'incalzarsi di manipoli di combattenti che corrono all'assalto; nelle quali le rime sono punte di spada e i tronchi finali urrà di vittoria. Ma nell'uniformità dei metri facili e sonori, quanta varietà d'ispirazioni, dall'inno alla satira, alla romanza, all'elegia, all'epigramma, ed anche quanta sincerità e freschezza giovanile di passione! L'anima affaticata dagli urti e dalle procelle, ferita qualche volta dal taglio del sarcasmo di qui si fa arma, si rifugia in sè stessa, cerca conforto negli affetti gentili e pace in fantasie e sogni di solitudine e di oblìo, e allora un nuovo poeta vi appare, d'una dolcezza e d'una delicatezza squisita, che vi tocca le più intime fibre del cuore. Ma già questo poeta voi lo indovinate anche nelle poesie di battaglia, dove a ogni tratto spunta un fiore, brilla una goccia di pianto, suona una nota di mestizia soavissima. Vi ricordate quando dice al Manzoni morto:-?dormi, o vecchio, e sopra la tua zolla ti conforti i placidi sonni la rosa che ti donò Garibaldi??-e quando dice a Adelaide Cairoli, rammentandole il giorno che pregava alla tomba del suo primo figliuolo caduto:-?Ma allora, dopo la preghiera, ti rialzavi più forte, perchè ti rimanevano, ti baciavano ancora in viso quattro figli; e t'era così dolce il cercare su quei quattro volti il sorriso del tuo morto!?-E quando al poeta che impreca, infuriando, al cadavere della donna amata che lo fece soffrire, dice quella dolce e sapiente parola:-?Ah no, non insultarla! Ah non nelle maledizioni e nello scherno troverai il refrigerio che vai cercando, povero poeta! Tu non sarai guarito se non il giorno che perdonerai!?

E vorrei proseguire: vorrei imitar l'esempio di Emilio Augier, che all'Accademia francese, dovendo tesser l'elogio d'un poeta illustre, disse:-Quale omaggio migliore gli si può rendere che quello di recitare i suoi versi? e conchiuse:-Non aggiungiamo nulla: portiamo con noi intera la nostra commozione, e che il poeta tramonti nella sua gloria.-Ma recitar quei versi che furono la più schietta e calda espressione dell'anima sua, e darmi così l'illusione di riudir quella voce che non udrò mai più, non potrei: la commozione me li soffocherebbe nel cuore. Evochiamo una sola, la più bella forse delle sue creazioni, quella in cui più mirabilmente s'accordano l'altezza del concetto, la grandezza del disegno e l'andamento grave e solenne del ritmo che par che segni il passo di Leonida armato nel silenzio della notte. Alla mente di tutti, senza dubbio, è presente la figura augusta dell'eroe che, al raggio delle stelle, risorto dalla tomba d'Antelo, con la grande asta nel pugno, discende, circonvolato dall'aquile, per andar a cercare se sia sorta nel mondo una nuova gloria pari a quella delle Termopili, e riposar là, in mezzo ai fratelli degni, dei suoi trecento. Si sofferma, ma non si arresta a Clierniea. No,-dice ai Tebani morti che lo chiamano:

No, no, dormite in pace! Vano fu il sangue, eroi!

Periste e non salvaste l'ellenia libertà!

Giunge a Maratona; ma non s'arresta.-No,-grida ai caduti che lo invocano-qui non rimango.-

Tutto, voi, tutto aveste! la gloria e la vittoria

Pei lari! è troppo dolce, morti, dormir così!

Giunge alle isole Arginuse, sulle onde sparse di triremi infrante e di

salme insanguinate; ma non cede all'invito di Callicràtida:

?No?-dice-?foste prodi, cinque contro venti; ma foste Elleni contro

Elleni-e fu una squallida lotta?.

Giunge al campo di battaglia d'Isso; ma procede, dicendo ai soldati di

Alessandro, vincitori dei Persiani:

... Salvete, o morti! Leonida non dorme

Dove a un tiranno i lauri il greco acciar donò.

E non s'arresta a Gerusalemme dove l'invocano i crociati spenti, perchè, dice, ?io non pugnai per espiar peccati nè mossi in cerca d'avventure e di ricchezza?. E non s'arresta alle Piramidi, alla voce dei soldati di Buonaparte, perchè, grida:

Io non guidai sul colle i miei Trecento a Dite,

La libertà sul labbro e la conquista in cor!

E non s'arresta a Zama, dove gridano il suo nome i soldati di

Scipione, sgominatore d'Annibale:

E voi giacete! Io passo! Troppi eravate in campo!

E i numidi elefanti v'apersero il sentier.

E trascorre oltre il campo di Munda, sordo alle voci dei legionari di

Cesare, ai quali rinfaccia il motto del capitano:

Sul colle io per la patria pugnai, non per la vita:

Vincitori di Munda, lasciatemi passar!

E attraversa fiumi e monti, passa il Pirene, giunge in Provenza, si sofferma sul Rodano dove Mario distrasse i Teutoni; ma non s'arresta alla voce dei soldati di Mario, perchè sul sacro colle egli non attese, scrutando le stelle, l'ora in cui potesse combattere con la certezza della vittoria.

E varca le Alpi e scende in Lombardia; ma, sospinto dal ricordo della pace di Costanza, neppure a Legnano si arresta, perché

Se non dà frutti il sangue che val gloria d'allori?

Se libertà non germina, che val d'armi virtù?

Morti feconde io cerco, non vinti o vincitori;

Morti feconde e libere, tra quei che non son più.

E giunge finalmente sulla riva del Tevere, in vista di San Pietro, davanti a un'ara modesta, donde cento voci fioche lo salutano:

Noi pur, noi pur pugnammo in cinque contro venti,

E non fu indarno, o patria, nè il sangue, nè il morir!

A noi non la vittoria, ma dei fiacchi lo scherno:

Non i felici oròscopi, ma il pallido dover:

Non fratricidi allori, ma l'abbandon fraterno:

Non di tiranni il soldo, ma il raggio d'un pensier.

L'alme donammo al fato, non bugiarde parole,

Dall'ombra degli avelli guardando all'avvenir!...-

L'Ombra, inchinando l'asta, grida:-Stanotte vuole

Coi morti di Mentana Leonida dormir!

E così ora ?tramonti il poeta nella sua gloria? accanto al suo Leonida, egli che alle Termopili sarebbe morto tra i primi, e che in difesa della libertà e della giustizia combattè per trecento.

L'autor drammatico. Nessuno, certo, attende qui un'analisi ragionata di quell'opera complessa e varia, coronata di successi clamorosi, provocatrice di aspre battaglie, feconda di tante vive discussioni storiche e artistiche, nella quale dal dramma storico in versi, i ?Pezzenti?, il ?Guido?, l'?Agnese?,-dove la poesia e la fantasia predominavano e la storia non era che fondamento e facciata,-Felice Cavallotti passò al grande dramma storico in prosa-l'?Alcibiade? e i ?Messenj?-poggiato sopra una più minuta indagine del tempo e sopra un più profondo studio del vero, per trascorrere poi, con la ?Sposa di Menecle?, alla commedia intima di soggetto antico, e infine al moderno dramma psicologico, spingendosi fino all'idillio e al proverbio. Il cuore e la ragione insieme si ribellano oggi anche a una critica riverente. A noi basta rammentare che se neppur nel teatro non cercò nuove forme, attenendosi, come voleva la natura del suo ingegno, alla tradizione romantica, sulle traccie di Victor Hugo e dello Schiller, anche nel teatro portò il soffio della sua anima lirica, che tutto riscalda e vivifica, la santa fiamma dell'amor di patria e di libertà, una forza grande di sincerità giovanile e di virile coscienza, un continuo, amoroso, poderoso conato verso la bellezza e la grandezza, che ci leva in alto lo spirito e ci move il cuore anche quando non arriva dove fende. Chi potrebbe oggi esaminare, ponderare, discutere, mentre le creature della sua mente ci si affollano intorno velate di nero come la sua immagine, a cui fanno un corteo dolente e glorioso, come figli intorno al simulacro funerario del padre? Altro non possiamo fare che rammentarle e salutarle. E sfolgorante Raul che, levando la spada in cospetto al cadavere di Maria, grida al duca d'Alba: ?Troppo tardi. Oggi saremo in molti ai funerali. A me, pezzenti!?-è tragico il vecchio padre traditore del suo sangue che svela al figliuolo adorato la propria infamia, mentre suonano i rintocchi della campana che lo chiamano a combattere, con quelle semplici e terribili parole:-?Ferma! Io son Guido!?-è bello e generoso il giovine Scandiano che al duca di Mantova, ebbro di piacere e d'orgoglio, narra tra gli splendori della festa la fame e la disperazione del popolo di Mantova. è splendido il vecchio re di Messenia che, ritto sulle rupi, strappa la bandiera tirannica di Sparta e chiama alla rivolta il suo popolo col superbo grido:-?dove passa Aristomene, Sparta non ha bandiera!?-E pietoso e venerando è il vecchio Menecle che riprende dalle pareti lo scudo e la spada antica per chiedere alla morte per la patria l'oblio della dolce illusione perduta. E più alto di tatti, come una statua d'oro e di bronzo, segnata di mille colpì, ma salda e trionfante ancora sul suo piedistallo di marmo pario, ci sorge davanti il greco gigantesco e multiforme, che riunì in sè Cesare e Coriolano, Sardanapalo ed Antonio,-?tutte le faccie del polièdro umano?-e mentre passano dietro di lui, come visioni, i giardini e le piazze, le sale d'Atene, la spiaggia di Sicilia, il lido di Sparta, le acque dell'Ellesponto, le montagne di Frigia, e quella fuga maravigliosa d'assemblee, di eserciti, di campi di battaglia, di feste trionfali e di solitudini, che pare il giro di un mondo intorno ad un uomo,-noi non salutiamo in lui l'Alcibiade antico, vincitor di Bisanzio e di Calcedonia, ma la creazione più grande, più fortunata, più cara del poeta perduto; la salutiamo con la certezza che, quando pure dovessero le altre andar travolte dal tempo, quella resterà, splendida e palpitante di vita immortale. E se anche tanti pregi di pensiero e d'ispirazione non risplendessero nelle sue tanto applaudite e combattute opere drammatiche, sarebbero queste ancora amate e riverite da noi per il tesoro di studi amorosi e di dotti commenti che egli vi profuse intorno, per le tempestose ansie giovanili che gli costarono, per le ebbrezze ardenti che gli diedero, per i profondi e dolci conforti che recarono ai suoi grandi dolori e alle sue affannose fatiche di soldato della libertà e di tribuno della patria.

Eppure la più alta e potente manifestazione del suo ingegno e dell'animo suo egli la diede, a nostro credere, nell'oratoria. Oratore grande, insuperabile forse, se la natura non gli avesse negato qualcuna di quelle piccole doti sussidiarie, puramente fisiche, onde il grande oratore s'integra. Due oratori erano in lui, potenti del pari. L'oratore popolare e improvviso, che stentatamente incominciava, che vi faceva assistere al lavorìo, alla lotta laboriosa e violenta del sentimento e del pensiero con la parola, e che poi, infervorato dal suo sforzo medesimo, trascinato dalla passione, sprigionava un torrente di idee e d'immagini, dalle onde irruenti e sonore, e travolgeva ogni forza restìa dell'uditorio;-e l'oratore parlamentare delle grandi occasioni, che del discorso ordiva avanti la trama, nel quale le idee si svolgevano ordinate e concatenate, col corso largo e pieno d'un grande fiume, e logica, sentimento, precisione quasi scientifica di forma, tutti gli accorgimenti più fini dell'arte s'univano con l'ardore d'un'alta ispirazione, che tutto levava in alto. L'oratore nato, sussidiato dall'artista letterario, si rivelava nell'architettura ardita e grandiosa del periodo, sorreggente una grande quantità di idee accessorie, aggruppate armonicamente intorno all'idea principale, intarsiato di parentesi e d'incisi che, senza fare ingombro, illuminavano il concetto come di tanti raggi successivi, e condotto vittoriosamente, fra ogni sorta di pericoli, ad una frase geniale che superava tutte le altre in efficacia, e che nello stesso tempo giungeva inaspettata e pareva necessaria.

Maraviglioso era veramente come un uomo di natura così impetuosa sapesse, quando occorreva, trovar le parole gravi, misurate, guardinghe che facevan passare senza contrasti le idee più audaci, quasi rispettate per la dignità dell'abito; come qualche volta, nell'infuriare d'una tempesta, quasi per effetto d'una illuminazione improvvisa dell'intelletto e dell'animo, egli lanciasse, in luogo delle parole eccessive che tutti aspettavano, una così sincera e nobile invocazione alla concordia per l'interesse supremo della patria, che n'eran tutti gli animi disarmati e placati; come da quella bocca, donde erompevano tanti tuoni e tante fiamme, potesse sgorgare, al bisogno, un rivo d'eloquenza così mite e così serena. Vi ricordate di quel mirabile parallelo tra il generale della Lunigiana e il generale di Sicilia, che, fatto da tutt'altri, avrebbe scatenato un uragano? Vi ricordate della difesa ch'egli fece del ?fiore baciato dalla sventura?, quando dal banco dei ministri era lanciato un oltraggio a una giovinetta, mentre sul capo di suo padre, accusato politico, pendeva una condanna tremenda? Vi ricordate con che dignità di sentimento e di parola egli diceva nel Parlamento l'elogio d'un avversario morto, e riconosceva d'un avversario vivo la bontà e la rettitudine, e come qualche volta, sfuggitagli una frase offensiva, la temperasse come voleva la giustizia, in modo che non era la sua una ritrattazione del pensiero, ma del sentimento, non un atto di semplice convenienza, una gentilezza sentita e squisita di cavaliere e di galantuomo? Vi ricordate l'orazione in onore di Garibaldi morto, pronunciata il 3 giugno dell'83, al ?Castelli? di Milano, la quale strappò il pianto da tremila cuori, e la grande commemorazione epica dei caduti a Domokos, e le belle, austere, fraterne parole ch'egli disse nella prima riunione dei partiti estremi, discordi fino a quel giorno, per la fondazione della Lega della libertà?-Era l'eloquenza d'un poeta e d'un, sapiente-era una così alta e commovente ispirazione che quasi riusciva dolce agli altri oratori di non poterla raggiungere-erano la ragione, l'entusiasmo e la fede parlanti il più eletto linguaggio che possa uscire dall'animo d'un cittadino. Quante volte Vittorio Alfieri gli avrebbe posto la mano sul capo, ripetendogli i versi di Eschilo a Timoleone:

Ah! no, più caldi mai, nè mai più veri

Forti divini detti in cor mortale

Mai non spirò di libertade il nume!

E non di meno, non si potrebbe affermare con certezza che fosse l'oratoria, non invece la facoltà puramente ragionatrice, non la forza analitica e polemica la sua virtù intellettuale preminente. Di lui si può dire quello che dell'autore dell'?Emilio? disse Enrico Taine. Non c'è loico più serrato. La sua dimostrazione s'annoda in fili d'acciaio, maglia a maglia, per lunghe pagine, come una enorme rete senza uscita, in cui, volenti o no, si rimane avvinti. Non un filo gli sfugge o gli si rompe, ed egli ha costantemente sotto gli occhi e dentro la mano la rete intera. Dagl'infiniti e bene ordinati compartimenti della sua salda memoria escono prontamente, a un richiamo, nomi, date, parole, fatti, circostanze di fatti, che a vicenda si rischiarano e si rincalzano, disponendosi e collegandosi logicamente come le formule successive d'un'operazione matematica, che non possa esser condotta in altra forma nè riuscire ad altro risultato da quello a cui egli tende. La punta della sua idea v'è già penetrata nella mente, credete che non vi si possa addentrare di più, ed egli ve la configge ancora più addentro con un martellamento fitto e preciso, che vince anche le ultime resistenze inconscie dell'animo vostro. Nessuna maraviglia che chi possedeva una così potente arte dialettica l'adoperasse anche quando ad altri poteva parere superflua, o inopportuna, o senza speranza di effetto utile. Ma maraviglioso è che egli vi ricorresse e l'esercitasse magistralmente anche nei momenti di maggior concitazione dell'animo, che egli ragionasse in quel modo con la penna alla mano un'ora prima d'andare a rischiar la vita con l'arma nel pugno, che neanche il presentimento della morte, che qualche volta lo assalì in quei momenti, potesse turbare in lui quella facoltà delicatissima a cui pare indispensabile la quiete serena dell'animo e la libertà assoluta della mente. E questo prova quanta sincerità, quanta pensata fermezza ci fosse anche nelle sue determinazioni che potevano parer più violente, come la sua passione fosse mossa sempre da una idea e sorretta e vigilata, dalla coscienza, come fosse in lui convinzione vigorosa e tenace ciò che non era creduto da molti che ira, odio, sete di rappresaglia e di vendetta, come la sua spada, anche nelle quistioni che parevan più strettamente personali, fosse quasi sempre la spada d'un'idea.

No, non si battè per impeto d'ira o per febbre di vanità chi, venti volte, prima di venire alla prova, scrisse di proprio pugno la sua difesa e il suo testamento, con l'espressione precisa delle sue ultime volontà, con la previdenza chiara e minuta di tutte le conseguenze possibili della sua morte. Certo, spuntava un sorriso sulle labbra a chi gli udiva dire:-Io sono un uomo pacifico.... furono le circostanze che mi forzarono.... E la natura delle questioni in cui mi trovai impegnato....-Eppure, nella sua coscienza, questo era vero. Ma ci perdoni la cara memoria se noi lamentiamo il concetto da cui la sua ragione partiva, e se esprimiamo la speranza che la sua fine lacrimata e funesta serva almeno di ammonimento alla generazione che sorge. Ma come! Un passato di trent'anni di fecondo lavoro intellettuale, di nobili lotte, di servizi resi alla patria, un avvenire di forse altri trent'anni di vita egualmente benefica, un tesoro inestimabile di entusiasmo, d'eloquenza e di forza, una mente privilegiata, da cui mille quistioni altissime d'interesse pubblico attendono luce ed impulso, in cui milioni d'uomini fondano speranze di protezione e d'aiuto,-tutto questo, per una parola, deve esser messo a un cimento, nel quale un passo falso, il tradimento d'un muscolo, la svista d'un istante possono distrugger tutto in un nulla? Ah! è una follìa, un errore, una vergogna! Ed è appunto questo pensiero che oggi ci aggiunge angoscia ad angoscia: è il dover riconoscere che ci troviamo ancora a questo segno di barbarie, è il dover confessare che, pure riconoscendo l'assurdità di quest'idea dell'onore che, in un tempo di vantata eguaglianza, si circoscrive in una sola classe sociale, non s'abbia ancora il coraggio civile di uscirne, e che la società culta, che pure la condanna nella sua coscienza, tolleri, incoraggi, accarezzi, con la cospirazione d'una legge ipocrita, il pregiudizio stolto, la tradizione dell'usanza stupida e feroce che la insanguina e la disonora.

Era fors'anche suo pensiero che nelle lotte politiche avesse il duello questa giustificazione: che molte volte esso racqueta e riconcilia due avversari che si stimano; fra i quali, altrimenti, sarebbe impossibile o più difficile assai la riconciliazione. Questa e ogni altra ragione possiamo ammettere, per ispiegarci la sua condotta, fuorchè la mancanza di bontà d'animo, di cui dai nemici fu accusato. Ah! dell'accusa sorride-sorride amaramente chi sentì il suo abbraccio fraterno dopo una lunga separazione, e sa quante calde e devote amicizie egli ebbe anche fra i suoi più appassionati avversari,-chi si ricorda quanto fosse buono e amabile il sorriso su quel volto coperto di cicatrici, quand'egli espandeva l'animo con gli amici intimi, sorridenti alla volta loro di tante ingenuità giovanili del suo cuore e della sua parola,-chi si rammenta con quanta gentilezza, nelle famiglie che l'ospitavano, la sua mano gagliarda si posasse sul capo dei bambini e la sua bocca usata a soffiar la tempesta esortasse i giovinetti allo studio, all'amor del bene, al culto della verità e dell'ideale.-Gli mancava la bontà dell'animo.-A Felice Cavallotti! Ah non lo pensa chi ha visto la sua fronte superba chinata al capezzale degli infermi, chi ha sentito i suoi singhiozzi disperati accanto al cadavere della sua figliuola, chi ha assistito una volta sola all'espansione della sua gioia e della sua tenerezza di fanciullo fra le braccia della vecchia madre adorata, che gli ripeteva con tanta dolcezza:-Felice, Felice mio, sii più prudente....-come se presentisse il destino. Buono era, e n'è una grande prova il fatto che molte volte, candidamente, egli si rimproverasse, si dolesse di non potere esser più buono di quello che era. Povero Cavallotti! Non è molto tempo che, rispondendo ai consigli d'un amico, egli diceva a questo con un sorriso ingenuo:-Già, tu sei più buono di me.-Ma il giudizio fu coscienziosamente respinto.-No, Cavallotti-gli fu risposto.-Io non son più buono di te; non lo sono quanto te. Facile è la bontà a chi, lontano dalla lotta, non s'espone all'offesa che lacera e avvelena l'anima e non sente in faccia l'alito violento dei nemici che, non dandoti tregua alla guerra e negandoti ogni virtù gentile, ti scoraggiano dalla gentilezza e dal perdono. Ah no! Io so ben discernere quello che è in te violenza necessaria e durezza acquisita di lottatore da quello che è prima e schietta natura. Di questa, che è tutta d'oro, tu hai salvato fra le battaglie quanto era umanamente possibile, e quello che ti resta è ancora un tesoro che t'invidio.-Ah, gli mancava la bontà dell'animo!-A Felice Cavallotti! Ma se contro a mille prove dell'asserto, non possibile che a chi non lo conobbe, stesse quella sola indimenticabile poesia, quello straziante e divino grido d'amore e d'angoscia che dal treno di Gallarate egli lancia all'angolo del cimitero dove dorme la sua figliuola, se egli non avesse pronunciato in tutta la sua vita altre dolci parole che quelle con cui s'illude che la sua creatura senta passare il suo dolore e possa rispondere alla disperata invocazione del suo cuore trafitto, se in cinquantacinque anni non gli fosse scoppiato dall'animo che quell'unico grido, basterebbe quello per farci credere, affermare, giurare che egli fu buono.

L'accusa, di mancanza di bontà e di gentilezza gli fu più spesso ripetuta nell'ultimo periodo della sua vita. E qui m'occorre di fare una dichiarazione. Io mi son proposto, com'era mio stretto dovere, di commemorare il compianto cittadino al di fuori d'ogni idea e d'ogni sentimento di parte politica; ma a rischio d'esser accusato d'infrangere il proposito debbo accennare all'ultima grande lotta ch'egli combattè in nome della giustizia e della moralità pubblica, poichè il rifiutare, per non dar ombra ai vivi, un onore dovuto a un morto, non mi parrebbe generosità, ma codardia. Dal più profondo della mia coscienza, non velata in questo momento da ombra d'odio e di rancore, esce la voce che m'impone un tributo d'ammirazione e di plauso al lottatore dell'ultima ora. Giorno verrà, senza dubbio, in cui si riconoscerà universalmente che sarebbe stata una vergogna incancellabile per il nostro paese se almeno una voce d'accusa e di sdegno non si fosse levata, e che se quella voce non fosse rimasta senz'eco, che se la giustizia ch'ella chiedeva avesse avuto corso e compimento, non sarebbe forse stata spinta fino agli estremi la forsennata impresa dell'Africa, sarebbe forse almeno stato evitato il macello miserando che la chiuse. ?Opera negativa? fu detta la sua con la stessa logica con cui si direbbe negativa l'opera del magistrato che, accusando e condannando, toglie e non dà dei cittadini al paese, o l'opera del soldato che, difendendo la patria sul campo, uccide e non crea.-Ha varcato il segno-da altri si disse-non doveva ostinarsi e incrudelire; si deve rispetto anche ai caduti per propria colpa.-E, certo, la parola è generosa, è l'espressione d'un sacro dovere di tutti verso i caduti che si pentono e si confessano, o cedon l'armi e rimangon muti. Ma quando i caduti rialzan la fronte minacciando, si ribellano alla giustizia e alla sorte, provocano la coscienza pubblica e tentano d'ingannare o d'imbavagliare la storia, l'ostinarsi nella lotta è dover di coscienza e necessità di vita. E poichè tanti sacerdoti della stampa che mentre egli combatteva solo quell'aspra battaglia, bersagliato di mille colpi e coperto di mille vituperi, l'applaudivano nella loro coscienza e copertamente l'incoraggiavano e gli desideravano la vittoria, pensando forse in cuor proprio che se avessero avuto la sua indipendenza, il suo ingegno e il suo coraggio, non per amor della giustizia, ma per sgombrar la via ad altre ambizioni, avrebbero condotta la stessa lotta con pertinacia anche più implacabile, poichè si videro tanti di costoro lamentare la sua morte e inneggiare alla sua vita senza arrischiar neppure una timida lode a quell'ultima opera sua, compiamo noi più risolutamente il debito nostro, affermando a voce alta, e con tutta la forza del nostro cuore, che quella fu la più forte, la più onorata, la più ammirabile pagina della sua vita.

E se anche qualche volta, se anche molte volte, nel flagellare i trafficatori della propria coscienza e i depredatori del danaro pubblico, egli fosse trasceso-supposto che in questo si possa trascendere-molto, tutto si dovrebbe condonare a chi per questo riguardo era uno dei pochi invulnerabili e puri, e dei pochissimi in cui la purità fu merito vero. In tutta la sua vita non v'è traccia nè indizio d'un atto compiuto per iscopo d'interesse materiale. Alla patria diede tutto e non chiese nulla. Dandosi alla politica, sposò la povertà. E non si diede alla politica, come altri, per esser fallito all'arte e alle lettere; le si diede nel colmo dei suoi trionfi d'artista. Ebbe offerte di cattedre e le rifiutò; avrebbe potuto trarre guadagni dalla sua penna feconda di pubblicista, e se ne astenne per dignità di tribuno; avrebbe potuto trarne dal teatro, solo che avesse rallentato alquanto la sua opera politica, e non lo fece per sentimento altissimo del suo dovere di cittadino. Quelle prolungate polemiche, che si dicevan mosse da spirito di ambizione e d'orgoglio, non erano soltanto per lui uno sforzo doloroso dell'animo, ma un dispendio enorme di tempo e di lavoro, ch'egli scontava poi in privazioni d'agiatezza, di libri, di svaghi desiderati. La sua spesa quotidiana era quella d'uno degli impiegati più modesti, la sua abitazione a Roma una camera di studente, la sua villa di Dagnente una povera bicocca; e al vestire non si sarebbe distinto quasi mai da un operaio di buon salario. Eppure mai, mai non si sentì dalla sua bocca una parola di rammarico, mai nemmeno un'espressione vaga di aspirazione a una vita più agiata e più signorile. Una cosa sola rimpiangeva di quando in quando: l'arte da cui s'era dovuto separare. Ma per quanto dicesse, fra le due dive nemiche, l'arte e la politica-l'una bella, splendida, sorridente, che lo chiamava-l'altra austera, dura, gelosa, che lo teneva-era questa quella ch'egli amava di più ardente amore-era la tiranna ingrata e spietata, che lo torturò e che l'uccise.

Quale esistenza! Ricorriamola ancora con uno sguardo. Quale miracolo continuo di moto; di passione, di lavoro! V'è una frase d'una sua lettera che definisce la sua vita.-Son qui-scrive a un amico-in mezzo a una tempesta di cose, che mi porta via la testa.-E questa tempesta durò quanto egli visse; nè può immaginare quanto turbinosa ella fosse chi non gli stette per qualche tempo vicino. Non conoscono i più che la sua assiduità operosa al Parlamento, la sua attività insuperabile nei periodi di lotta elettorale, i suoi viaggi faticosi in provincie lontane a scopo di propaganda e d'inchiesta, e la sua produzione straordinaria di pubblicista. Ma di pari passo con l'opera pubblica egli ne mandava un'altra che pochi soltanto conoscevano, ed era il patrocinio generoso di cause oscure e di oppressi sconosciuti, era una corrispondenza cortese e pronta con innumerevoli amici, sollecitatori e postulanti ignoti, d'ogni classe e d'ogni natura, erano visite e corse da per tutto ov'egli fosse richiesto per consolare un dolore, per comporre un dissidio, per profferire una parola utile. E tra l'una e l'altra di queste infinite cure pubbliche e private egli trovava il tempo di nutrir di nuovi studi lo spirito, di raccoglier documenti intorno alle quistioni del giorno, di gittare nella forma poetica le sue gioie, le sue tristezze, i suoi sogni. Bene qualche volta si rifugiava nel suo romitorio di Dagnente per prender respiro; ma lo raggiungevano là pure, da ogni parte, i telegrammi, le lettere, le sollecitazioni d'ogni forma, e vi facevano in pochi giorni una piena che lo travolgeva e lo risospingeva al lavoro. Una voce inesorabile, appena egli chiudesse gli occhi, gli gridava:-Dèstati, scrivi, parla, combatti, va!-Ma io sono stanco-rispondeva.-Fa uno sforzo.-Ma io son malato.-Non importa.-Ma io m'accorcio la vita.-è il tuo destino.-Ed egli si destava, scriveva, parlava, combatteva.-Diceva ultimamente, a Torino, passandosi una mano sulla fronte con un suo gesto abituale:-Ah! se potessi riposare per un anno.... per qualche mese.... Ma non posso.-E pareva rassegnato. Un solo pensiero lo turbava: il pensiero di una vecchiezza inferma, in cui non avrebbe più potuto lavorare nè combattere, e sarebbe rimasto in un canto, inutile come una spada arrugginita. E soggiungeva:-Vorrei morir prima!-Fu pago il suo desiderio, sventuratamente. La nobile spada non s'arrugginì-s'infranse-e passerà lungo tempo, pur troppo, prima che sul campo di battaglia dove egli cadde ne baleni un'altra così prode, così tersa, così gloriosa.

Ma egli fu ben altro, e ben di più che la spada d'un partito. Più alto fu il suo destino, più alto l'ufficio ch'egli compì. A dritto fu chiamato il continuatore del pensiero di Garibaldi, non circoscritto in una formola precisa, ma vasto tanto da comprendere tutte le aspirazioni dei tempi nuovi. Sopravvisse e parlò in lui la giovinezza ardente della rivoluzione italiana, con tutti i suoi più santi entusiasmi, con tutte le sue più luminose speranze. In ogni manifestazione del suo pensiero e del suo cuore è un accenno vago, ma caldo a qualche cosa di più grande che non sia il concetto astratto della libertà o una data forma di governo. Si sciolgono a ogni tratto il suo spirito e la sua parola dai vincoli angusti del programma politico del presente, e si slanciano verso l'avvenire. Disse egli un giorno:-Non sento il bisogno di cambiar l'ideale-e spiegò tutto sè stesso in quelle parole. Il suo ideale abbracciava vagamente tutti i bisogni e tutte le rivendicazioni popolari dell'età nostra. S'egli non combattè che per la libertà e per la giustizia è perchè comprendeva che eran queste le prime battaglie da vincere, e reputava saggezza il non disperdere in un più largo campo le sue forze, che gli occorrevan tutte a tener alta la sua bandiera. Ma nell'anima sua si raccoglievano e fiammeggiavano in una sola, invitta passione lo sdegno di tutte le miserie, il sentimento di tutti i diritti, l'amore di tutti i popoli. Comprese, sentì, previde più che non disse; ma ciò che non disse fu compreso. E però la sua voce, benchè non pronunciasse il nuovo verbo delle moltitudini, suonò nel loro cuore come la voce d'un fratello, e la sua morte fu lutto e pianto del popolo, e si posò sul suo feretro, con gli omaggi dei parlamenti e coi fiori della gioventù studiosa, con le corone dell'Italia irredenta e con la palma del martirio di Cuba, il saluto amoroso e triste di tutti i lavoratori del mondo.

Sì, convien risalire fino ai grandi fattori dell'unità della patria per ritrovare una morte così universalmente, così sinceramente compianta, e che abbia lasciato fra noi il sentimento d'un vuoto così vasto e così doloroso. E nessuno certo se ne allieta, neanche fra i suoi più acerbi nemici, nessuno che abbia senso di gentilezza e di carità di patria, perchè sentono tutti che è caduta una forza, che s'è spento un raggio, che è sparito un vanto vivente della patria. E questo solo ci conforta; che ciò ch'egli ci lasciò-l'esempio-nè tempo nè fortuna ci possono togliere. Esso sarà raccolto e sarà fecondo. La gioventù d'ogni parte e d'ogni fede ha qualche cosa da imparare e da imitare da lui. Egli fu soldato, tribuno, poeta, maestro; disprezzò la ricchezza, non ambì il potere, non adulò la fortuna, non s'infinse, non vendette, non mercanteggiò la sua forza,-fu buono, aperto e intrepido-fortissimo fu contro ogni forma di dolore e di pericolo, e fu potente e povero, illustre e incorrotto. Sì, tale egli fu, e le generazioni venture lo sapranno; tale tu fosti, o Felice Cavallotti, e te lo ridirà ogni anno, il giorno della tua morte, la tua patria, come te lo gridò nel primo schianto del dolore, mandando un bacio di madre alla tua bella fronte inanimata. E così sia seguito il tuo esempio come sarà venerata la tua tomba e glorificato il tuo nome. Nel nome di quanti ti amarono e ti piangono, Felice Cavallotti, sia benedetta la tua memoria!

Le tre Capitali.

NOTA A QUESTA NUOVA EDIZIONE

(1.a edizione Treves-1911).

Il De Amicis intitolò Le tre capitali, raccogliendoli tardi, questi suoi tre scritti giovanili, due dei quali, con titolo un po' diverso, appartenevano già ai Ricordi del 1870-71 (Firenze, Barbèra, 1872); più importante di tutti il terzo, che ha valore di documento letterario e storico insieme. L'autore, sottotenente nel 3.° Reggimento fanteria, brigata Piemonte, dopo la campagna del 1866 era stato comandato presso il Ministero della Guerra a Firenze e incaricato di dirigere l'Italia militare. Accompagnò, come corrispondente di quel giornale, l'esercito italiano alla presa di Roma, e scrisse immediatamente le sue impressioni del 20 settembre 1870 e delle giornate seguenti.

Molti anni dopo, nel 1898, quando l'editore Niccolò Giannotta di

Catania gli propose di iniziare con questi tre scritti riuniti in un

volumetto la sua piccola Biblioteca popolare contemporanea, il De

Amicis avvertiva:

?Rilessi, prima d'acconsentire, gli scritti, che avevo in parte dimenticati, e, rileggendoli, mi venne spesso sulle labbra un sorriso, che non era certo di compiacenza letteraria, e mi prese più volte un senso di tristezza, come accade sempre a chi si richiama alla memoria speranze alle quali non corrispose la vita ed entusiasmi su cui passò un'onda di nuovi affetti e di nuove idee. Acconsentii nondimeno alla pubblicazione di queste pagine perchè penso che la descrizione degli effetti intimi ed immediati prodotti da certi avvenimenti storici nell'animo d'un testimonio oculare non debba riuscire indifferente nè inutile ai giovani della generazione che quegli avvenimenti non vide; perchè l'affetto e la reverenza che sono espressi in questi scritti per le tre grandi città in cui palpitò e palpita il cuore d'Italia mi paiono sentimenti di cui non sia superfluo ripetere l'espressione anche dopo unificata la patria; e perchè in fine, in mezzo ai troppi difetti v'è se non altro in queste povere prose il pregio della sincerità giovanile, che, disponendo il lettore alla benevolenza, suol giovare indirettamente all'effetto cercato, ma non conseguito dall'autore per mancanza d'arte.?

D. M.

TORINO.

Un Torinese che volesse far da guida ad un Italiano d'un'altra provincia venuto qui per la prima volta, per metterlo in una disposizione d'animo favorevole alla città sconosciuta dovrebbe, prima di lasciarlo entrare in Torino, condurlo diritto a Superga. V'hanno spettacoli che sono per la vista degli occhi ciò che sono per la vista della mente quelle grandi intuizioni istantanee del genio, che abbracciano secoli di storia e regioni d'idee. Lo spettacolo che si gode da Superga è un di questi, ed è anche più grande e più bello della sua fama. Dalla sommità della cupola, con un solo giro degli occhi, in tre secondi, s'abbraccia tutto l'immenso cerchio dell'Appennino genovese e delle Alpi, dai gioghi di Diego e di Millesimo alla piramide superba del Monviso, dal Monviso alle porte della val di Susa, al Gran San Bernardo, al Sempione, al Monrosa, alle ultime montagne che fuggono verso levante di là del Lago Maggiore; sotto, tutti i colli di Torino, popolati di ville e di giardini; più in là i bei poggi del Monferrato, vestiti di vigneti e coronati di castella, e le colline ubertose della sinistra del Tanaro; e oltre a queste una successione di tappeti verdi sterminati, una campagna senza fine, che si perde nelle pianure vaporose della Lombardia, argentata dalle mille curve del Po, seminata di centinaia di villaggi, rigata di strade innumerevoli, coperta d'una vegetazione lussureggiante di boschi, di verzieri e di messi, nettamente visibile in tutti i suoi rilievi infiniti fino alle più grandi distanze, come se ogni sua parte ci s'avvicinasse al fissarvi sopra lo sguardo. Ed è una natura così fresca e così italiana di forme e di colori, così maestosamente serena nella immensità dei suoi orizzonti azzurrini, e così grande e terribile d'antiche e di nuove memorie, che dopo averla percorsa intera, quando si volgon gli occhi giù sulla città tutta piana e rosseggiante lungo le rive del Po e della Dora, chiusa in un vasto cerchio di verzura cupa, dominato dal bel monte conico dei Cappuccini, somigliante a uno smeraldo enorme, viene spontaneo sulle labbra il ?Te beata? che gridò a Firenze Ugo Foscolo, e si resta maravigliati che tutta quella bellezza non abbia ancora avuto anch'essa da qualche grande poeta il tributo d'una lode immortale.

Ho cercato molte volte, curiosamente, con uno sforzo dell'immaginazione, di rendermi conto dell'effetto che può produrre la città di Torino in un Italiano che la veda per la prima volta....

Certo, un Italiano che arrivi qui coll'idea di trovare una città uggiosa, e un po' triste, come certi stranieri la definiscono-un villaggio ingrandito-un mucchio di conventi e di caserme-deve provare un disinganno piacevole, uscendo dalla stazione di Porta Nuova, in una bella mattinata di primavera. Alla vista di quel grande Corso, lungo quanto i Campi Elisi di Parigi, chiuso a sinistra dalle Alpi, a destra dalla collina, davanti a quell'infilata di piazze, a quelle fughe di portici, a quel verde rigoglioso, a quella vastità allegra, piena di luce e di lavoro, deve esclamare:-è bello-o tirare almeno uno di quei larghi respiri, che equivalgono ad una parola d'ammirazione. E andando su verso piazza Castello.... Ma un Italiano che venga a Torino per la prima volta, se appena ha una scintilla d'amor di patria nel sangue, è impossibile che, addentrandosi nel cuore della città, serbi tanta freddezza d'animo da non giudicarla che con l'occhio dell'artista. Egli deve sentirsi sollevato, travolto da un torrente di ricordi, sfolgorato da una miriade d'immagini care e gloriose, che trasfigurino la città ai suoi occhi e gli facciano parer bella ogni cosa. Deve veder Carlo Alberto, affacciato alla loggia del palazzo reale, in atto di bandire la guerra dell'indipendenza; incontrar sotto i portici il conte Cavour, che va al Ministero, dandosi la storica fregatina di mani; vedere i Commissari austriaci del 59 che portano l'?ultimatum? al Presidente del Consiglio; i corrieri che divorano la via Nuova recando le notizie delle battaglie di Goito, di Pastrengo e di Palestro; le deputazioni dell'Italia centrale che vanno a presentare i voti dei plebisciti; una legione di vecchi generali predestinati a morire sui campi di battaglia; a una cantonata Massimo d'Azeglio, in fondo a una strada Cesare Balbo, qui il Brofferio, là il Berchet, laggiù il Gioberti; visi tristi e gloriosi di prigionieri dei Piombi e di Castel dell'Uovo; giovani a cui brilla sulla fronte, come un raggio, il presentimento dell'epopea dei Mille; battaglioni abbronzati di bersaglieri della Crimea che passano di corsa e stormi di giovani emigrati che sbarrano la strada, agitando i cappelli, alla carrozza di Vittorio Emanuele; in ogni parte cento immagini di quella vita ardente e tumultuosa, piena di speranze e d'audacie, di __grida di dolore__, di canti di guerra e di fanfare trionfali, che s'agitò per quindici anni fra queste mura.

Il centro di Torino ha una bellezza sua propria, invisibile allo straniero indifferente, ma che deve affascinare l'Italiano nuovo arrivato. Ogni suo angolo, ogni sua casa parla, racconta, accenna, grida; ogni arco de' suoi portici è stato l'arco di trionfo d'un'idea vittoriosa; sopra ogni pietra del suo lastrico si sono incontrati e stretti la mano per la prima volta due italiani di provincie diverse, due esuli, due soldati della grande causa comune; tutto v'è ancora caldo del soffio immenso di amor di patria che vi passò, infiammando e travolgendo ogni cosa, come un uragano di fuoco. Quale Italiano può arrivar là senza sentirsi commosso? In poche città i luoghi e i monumenti più memorabili si trovano meglio disposti per colpire tutt'insieme lo sguardo e la mente: in un giro di pochi passi, intorno al Palazzo Madama, si vede e si ricorda tutto. Ed è anche bella per l'artista e per il poeta quella piazza vastissima, che arieggia il cortile d'un palazzo smisurato. Quella reggia severa e nuda, dietro a cui s'innalza la cupola grigia della vecchia cattedrale, il Palazzo Madama, grave come una fortezza, sorvolato da nuvoli di colombi, il tendone bianco delle Alpi che chiude via Dora Grossa, la cortina verde delle colline che chiude via di Po, quel contrasto di baracconi da fiera e di palazzi austeri, di folla e di strepito da un lato e di solitudine tranquilla dall'altro, danno a quella parte di Torino un aspetto misto così stranamente di città nuova e di città vecchia, di gaiezza meridionale e di gravità nordica, di maestà di metropoli e di semplicità provinciale, da far pensare a due città lontane che un prodigio abbia ravvicinate e congiunte.

Ma qui non può farsi un'idea di Torino il forestiero. Quietato il tumulto dei ricordi, bisogna ch'egli s'inoltri in quella parte della città che è compresa fra via di Po, via Roma, il Corso del Re e il fiume. S'egli non è mai uscito d'Italia, ne avrà senza dubbio un'impressione nuova. La città par fabbricata sopra un immenso scacchiere. Per quanto si giri, non si riesce che a descrivere una greca continua. Tutte le strade, a primo aspetto, si rassomigliano: tagliano tutte un lunghissimo rettangolo di cielo con due file di case di color uniforme, su cui lo sguardo scivola dal cornicione al marciapiede senza che nulla l'arresti, allineate a corda com'erano i vecchi reggimenti piemontesi, coi guidoni e le guide sulla linea, dopo un'ora di lavoro. Si va avanti, e par sempre di passare e di ripassare nei medesimi luoghi. Si può camminare a occhi chiusi: non c'è da sbagliare: ogni tanti passi, riaprendo gli occhi, si vedranno due interminabili vie diritte a destra e a sinistra, l'una chiusa dalle Alpi, l'altra chiusa dalle colline. Qualche somiglianza con altre città ci si trova: si ricorda via Toledo di Palermo, Livorno, certi quartieri di Marsiglia e di Barcellona. Ma qui c'è qualche cosa di particolare, difficile a definirsi: non so che di più rigido e di più corretto. Non son le case francesi, gabbioni con faccia di palazzi, parate di decorazioni posticce; bottegaie rinfronzolite. Sono file di ?umiliate?, schiere d'alunne di collegio-convitto, grosse massaie benestanti, tarchiate, in veste da camera, che si danno francamente per quello che sono, e spirano un'aria di bontà contegnosa, l'amor della vita regolare, l'abitudine delle passioni contenute. Il color giallo impera, con tutte le sue sfumature, dal calcare cupo all'oro pallido, misto d'innumerevoli tinte verdognole e grigie, che però si perdono in una tinta generale giallastra, un po' sbiadita, che dà alla città un certo aspetto tranquillo di decoro ufficiale. Qua e là spicca la nota ribelle d'una casa azzurra, in qualche punto scoppia il grido acuto d'un edifizio rosso che fa un po' di scandalo in quel silenzio di colori modesti; ma subito dopo si ristabilisce la disciplina in due lunghe file di case della solita tinta, un po' imbroncite, che han l'aria di disapprovare quelle pazzie. Percorse le prime strade, si comincia a notare qualche corrispondenza tra la forma della città e il carattere della popolazione. C'è espressa una certa ostinazione in quella uniformità, c'è un'idea di schiettezza in quello sdegno d'ogni ostentazione, un certo indizio di procedere aperto in quell'ampiezza di spazi, un'immagine di forza in quella tarchiatura di edifizi, una perseveranza che va dritta allo scopo in quella rettitudine di linee. Passando per quelle vie si ricorda involontariamente la disciplina dell'antico esercito sardo, le antiche abitudini militari della cittadinanza, la rigidezza della burocrazia, l'onnipotenza dei regolamenti, lo stile duro dell'Alfieri, la semplicità nuda di Silvio Pellico, la correttezza un po' pedantesca d'Alberto Nota, l'andamento cadenzato e simmetrico dei lunghi periodi oratorii di Angelo Brofferio, e la chiarezza ordinata degli articoli di don Margotti, di Giacomo Dina e del dottore Bottero. S'indovina la vita della città a primo aspetto. Non c'è, come a Firenze, il piccolo crocicchio, l'angoletto, la piazzetta, dove ognuno si pare a casa sua, dove è possibile il dialogo tra la strada e la finestra e la fermata d'un'ora con le spalle alla cantonata. Qui c'è per tutto la città aperta, larga, pubblica, che vede tutto, che non si presta al crocchio, che interrompe le conversazioni intime, che dice continuamente, come il poliziotto inglese:-Circolate, lasciate passare, andate pei vostri affari.-Si può essere usciti col miglior proposito di andare a zonzo: si finisce sempre con fissarsi una meta. A un certo punto si sente un po' di sazietà; l'artista si rivolta contro quella regolarità compassata. S'ha la testa così piena di angoli retti, di parallelismi, di simmetrie, di omologie, che, per dispetto, si vorrebbe poter scompigliare tutta quella geometria con un colpo di bacchetta fatata, che mettesse Torino sottosopra. Ma a poco a poco, come certi motivi monotoni, che, a furia di sentirli ripetere, ci si fissano nel capo irresistibilmente, così quella regolarità, a grado a grado, fa forza al gusto e soggioga la fantasia. Si prende amore a quell'uniformità che lascia la mente libera, a quella specie di dignità edilizia, non ancora offesa dall'insolenza ciarlatanesca della réclame colossale, a quelle corrispondenze di prospetti che s'indovinano prima di vederli, come le rime delle strofe metastasiane, a quella nettezza rigorosa, a quei grandi lembi rettangolari di cielo che ci si stendono sul capo, e a quelle vie lunghissime in cui insensibilmente il passo s'affretta, lo sguardo s'acumina, il petto si dilata, la mente si rischiara, e a quelle grandi piazze e a quei grandi giardini che fanno qua e là un largo squarcio improvviso, pieno d'aria e di verde, nella rete uggiosa delle strade gemelle. La città sonnecchia un poco tra via di Po e via San Lazzaro, dove grandi isolati di color cupo gettano come un'ombra di tristezza nelle vie larghe e solitarie, nelle quali non si sente strepito di lavoro, e la pedata di chi passa risuona sotto le v?lte dei portoni muti e nei cortili erbosi; ma si ravviva sui confini di Borgo Nuovo, dove per sei vie allegre e chiare, piene di popolo minuto, si vede il verde fitto del Corso del Re, e ringiovanisce all'estremità di tutte le strade che van da ponente a levante dove le colline del Po mettono un riflesso di serenità e di grazia campestre. E quanto più si va lontano dal centro, tanto più la città si fa varia e amena. Si trovano degli angoli ariosi, tranquilli e simpatici, che fanno pensare alla vita raccolta d'un buon capo-sezione giubilato, che vada ogni giorno a quell'ora a leggere il giornale al caffè vicino e a far la passeggiata igienica nel viale accanto, ed abbia la sua oretta fissa per la visita galante a una buona amica di quarant'anni; piccoli crocicchi puliti, d'aspetto giovanile, formati da alte case poderose, che dominano un vasto orizzonte, dentro alle quali par di vedere le camerette di tanti studenti di provincia, poveri, ma di buona razza piemontese, che martellino ostinatamente sui libri, menando una vita di sacrifizi, per prepararsi un avvenire onorato e lucroso; grandi case aperte ad angolo verso la strada con cinque ordini di terrazzini, che mostrano mille piccoli particolari intimi della vita torinese, dal servitore che innaffia i fiori della contessa al primo piano, su su, scendendo per la scala sociale via via che si sale per la scala della casa, fino all'impiegatuccio tirato che legge il giornale sotto i tetti e alla moglie dell'operaio che stende i suoi cenci fuori della soffitta. Le strade essendo lunghissime, presentano successivamente aspetti diversi: andando avanti diritto per una strada sola, si attraversa una piccola parte di Torino commerciale, una parte di Torino elegante, un quartiere povero, un quartiere affollato, un quartiere deserto; si vede la città in tutti i suoi aspetti, senza svoltare una volta sola. E non si trovan grandi contrasti. I palazzi schierati alla pari con le grandi case borghesi, alcuni anche dissimulati da una facciata comune, come il Palazzo dell'Università e il Palazzo dell'Accademia filarmonica, non servono a dar carattere alle strade. Non c'è il palazzo vistoso del gran signore, che schiaccia gli edifizi circostanti, e dà l'immagine d'una vita splendida e superba. L'architettura è democratica ed eguagliatrice. Le case possono chiamarsi fra loro:-Cittadina-e darsi del tu. La distribuzione delle classi sociali a strati sovrapposti, dal piano nobile ai tetti, toglie alla città quelle opposizioni visibili di magnificenza e di miseria che accendono nell'immaginazione il desiderio inquieto e triste delle grandi ricchezze. Girando per Torino, si prova piuttosto un desiderio di vita agiata senza sfarzo, d'eleganza discreta, di piccoli comodi e di piccoli piaceri, accompagnati da un'operosità regolare, confortata da un capitale modesto, ma solido come i pilastri dei suoi portici, che dia la sicurezza dell'avvenire.

Questo carattere apparente di Torino muta tutt'a un tratto all'entrare in quella parte della città che si stende fra via Santa Teresa e piazza Emanuele Filiberto. Qui la città invecchia all'improvviso di parecchi secoli, si oscura, si stringe, s'intrica, si fa povera e malinconica. Il forestiero che vi capita per la prima volta ne rimane stupito, come dalla trasformazione istantanea d'una scena teatrale. Appena v'è entrato, la città gli si chiude intorno, intercettandogli la vista da tutte le parti, ed egli vi resta preso come in un agguato. Le vie serpeggiano e si spezzano bizzarramente, fiancheggiate da case alte e lugubri, divise da una striscia sottile di cielo, nelle quali non s'aprono che portoni bassi e cavernosi, per cui si vedono cortili neri, scalette cupe, anditi bui, vicoli senz'uscita, sfondi umidi e tristi di chiostro e di prigione. Par di essere discesi in una Torino sotterranea, dove non scenda che una luce riflessa. E andando avanti verso il Palazzo Municipale, tutto si fa più stretto, più nero e più vecchio. Si riesce in crocicchi angusti che ricordano le scene del Goldoni, dove si spettegola tra la strada e le finestre, in angoli di viuzze raccolte e sinistre, in cui pare che tutte le famiglie che v'abitano debbano far vita comune, come una tribù di gitani: si vedono dei chiassuoli misteriosi, chiusi fra alti muri senza finestre, d'un grigio sudicio, coperti di grandi macchie diaboliche; e là immagini di madonne agli spigoli delle case, botteghe di barbiere col lume acceso di mezzogiorno, covi di rigattieri che paiono vani di cantine, albergucci di villaggio, con insegne grottesche, e cortiletti coperti di tettoie rustiche, ingombri di carri di mercanti di campagna, e caffè sepolcrali, che quattro avventori riempiscono. E si gira in mezzo a file di bottegucce che han tutto fuor dell'uscio fra odori di formaggi, di scarpe, d'olio, d'acciughe, in un puzzo di stantìo e di rinserrato, in una mezza luce di crepuscolo, fra un va e vieni fitto di gente affrettata che si stringe al muro per lasciar passare carri e carrette, che ingombrano tutta la strada, e si vedono fra quella gente certe figure che non si ritrovano che là: beghinette incartocciate a cui si domanderebbero i connotati di Carlo Emanuele III, droghieri vecchi come le strade, che han l'aria di aver militato contro la Spagna, mummie d'orefici secolari, a cui vien voglia di dare, passando, la notizia fresca dell'unificazione d'Italia. C'è in tutta quella parte di Torino un malumore d'antica cittaduzza fortificata, una tristezza di museo archeologico, un tal vecchiume di muri, di merci, di facce, d'esalazioni, di tinte, che vien fatto di guardarsi intorno coll'idea di veder ancora gl'Israeliti col nastro giallo al braccio o di tender l'orecchio per sentir se la campana dell'antica torre di Dora Grossa annunziasse per caso un'esecuzione capitale o la raccolta del Consiglio decurionale della città. E quest'illusione si fa più viva arrivando sulla piazza del Municipio. Davanti a quel palazzo giovine di due secoli, ma d'aspetto già antico, in quella piazzetta ombrosa affollata di gente della campagna, circondata di portici ingombri di banchi di merciaie, attraversata dalla folla che va al mercato di Porta Palazzo, in mezzo alle statue colossali di Carlo Alberto e di Vittorio Emanuele, fra il Duca di Genova che brandisce la spada e la figura atletica del Conte Verde che atterra i Saraceni, di fronte alla via stretta e austera per cui lo sguardo va diritto al palazzo silenzioso delle antiche Segreterie, si rimane presi così strettamente dalle memorie e dalle immagini d'un altro tempo che par di riviverci e di vedere e di capire fin nelle sue più intime cose l'antica capitale del Piemonte, quella piccola città rude, severa, soldatesca, cocciuta, che preparò ostinatamente, in silenzio, la grande lotta, e si cacciò per la prima, a capo basso, contro il colosso nemico, coll'impeto del toro da cui ha tolto lo stemma. E si scorda quasi, stando in quel punto, la bella Torino vasta, gaia, crescente, che le si allarga intorno da ogni parte, e par di fare un salto miracoloso, al rientrare improvvisamente in via Dora Grossa, che spande un torrente d'aria e di vita nuova a traverso a quel mondo invecchiato.

Come canzoni monotone e tristi che finiscano in una risata argentina, tutte quelle vecchie strade che corrono da levante a ponente, vanno a riuscire in istrade spaziose e chiare, sboccano in piazze e in giardini, conducono ad una nuova Torino giovanile, attraversata da larghi viali, piena di verde, ribelle all'antica disciplina architettonica, dove al grande isolato succede la casa geniale, al grosso pilastro la colonna snella, al terrazzino a ringhiera il terrazzo a balaustri, al giallo tedioso mille colori ridenti e leggieri, a una Torino simmetrica sempre, ma senza monotonia, che spalanca verso le Alpi la gran bocca di piazza dello Statuto, come per aspirare a grandi ondate l'aria sana e vivificante della montagna. Tutta questa parte di Torino riceve un riflesso particolare di bellezza dalla grande catena alpina che corona l'orizzonte delle sue smisurate piramidi bianche. Pare che le Alpi mettano nelle sue piazze e nelle sue strade tranquille il sentimento del silenzio immenso delle loro solitudini. Da ogni parte spuntano le loro cime; tutto si disegna sulla loro bianchezza; le ultime case della città sembrano fabbricate alle loro falde; in meno d'un'ora pare che si debba arrivare ai piedi delle prime montagne. Al levar del sole tutta la grande catena si tinge d'un colore di rosa leggerissimo, d'una grazia infinita, che impone quasi il silenzio all'ammirazione, come se la parola dovesse rompere l'incanto, e far svanire la visione. E durante il giorno lo spettacolo cangia ad ogni ora. A momenti si vedono appena dietro a un velo di nebbia, come una linea misteriosa, i contorni altissimi delle cime che paiono profili di nuvole enormi ed immobili. Poi la catena immensa passa, per tutte le sfumature più fresche e più pompose dell'azzurro, presentando tutta una tinta unita senz'ombre, che le dà l'apparenza d'una prodigiosa muraglia verticale e merlata che separi due mondi. Ora le montagne appariscono vicinissime, a traverso all'aria limpida, variate d'infiniti contrasti d'ombra e di luce, per cui si discernono nettamente tutte le creste, tutti i dorsi, tutte le gole, tutti gli scoscendimenti, i più piccoli rilievi e le più leggiere ondulazioni dei loro fianchi mostruosi, come si vedrebbero col telescopio; ora svaniscono quasi nel chiarore bianco del mezzogiorno, smisuratamente lontane, d'una tinta vaporosa che si confonde col cielo, e ingannano l'occhio che le cerca con profili fantastici d'altezza soprannaturale, che si dileguano quando si crede d'averli afferrati. Alle volte si mostrano qua e là a larghi tratti, come inquadrate negli squarci delle nuvole dopo un rovescio d'acqua, nette e fresche sul cielo terso e profondo; altre volte cinte di immensi viali bianchi, coronate d'aureole candide, impennacchiate di nuvolette luminose, che danno un aspetto più solenne, con quel sorriso di grazia passeggiera, alla maestà impassibile della loro grandezza.

Ma lo spettacolo, sempre bellissimo, è maraviglioso verso sera, quando la luce calda del tramonto retrocede di altura in altura, e tutte quelle vette superbe si disegnano a contorni bruni sul cielo purpureo, come le guglie d'una città favolosa sullo splendore d'un incendio, e quando tutto il grande cerchio delle montagne essendo già immerso nell'ombra, il monte Rosa solitario brilla ancora della sua bella luce rosata, come se vi battesse il raggio d'un altro sole, e le sue cime gloriose fossero privilegiate d'un'aurora eterna.

Il forestiero deve cogliere quel momento, quando è tutto compreso della bellezza formidabile delle Alpi, e di quel sentimento affettuoso e triste che si prova alla vista dei confini della patria, per andare a cercare il più piacevole degli effetti di contrasto di cui si possa godere a Torino. Deve salire in una carrozza, e farsi condurre rapidamente, per la via più dritta, sulla riva sinistra del Po. Là era il poema, qui è l'idillio, davanti al quale il pensiero, che già vagava di là delle Alpi, ritorna tutto in Italia. è un paesaggio tutto verde, pieno di grazia, e un po' teatrale, tanto ogni sua parte è in vista, si mostra, si porge quasi allo sguardo, e par che tradisca l'intenzione d'un artista, più che l'opera della natura. Le colline schierate sulla sponda opposta s'avanzano sul fiume, si ritraggono, si dispongono ad anfiteatro, si risospingono innanzi, s'innalzano le une sulle altre a curve leggiere e gentili, che si fanno accompagnare con uno sguardo carezzevole e con un atto di consenso del capo; e sono coperte di vigneti, ombreggiate di boschetti di pini, sparse di case e di ville, non tante fitte da toglier loro la grazia della solitudine campestre, simili qua e là nella vegetazione e nelle forme a certi tratti delle colline del Bosforo e del Reno. Una schiera di case da villaggio si stende lungo la riva; da una parte il Castello rosso del Valentino specchia nelle acque le sue mura severe e i suoi tetti acuti, e il fiume s'allunga fra due sponde romite, che si curvano in mille piccoli seni folti di salici e d'ontani; dalla parte opposta il paesaggio s'apre in una grande chiarezza, e s'alza in disparte, a grandi curve riposate e superbe, la collina di Superga, coronata della sua Basilica solitaria, accesa dal sole. Lo strepito d'un mulino, il mormorio di una cascatella del fiume e le voci delle lavandaie inginocchiate lungo le sponde, sono i soli rumori che turbino il silenzio di quel vasto giardino pieno di gentilezza e di pace, dinanzi al quale il più prosaico Prudhomme torinese si arresta, ammirando. E il vecchio Po, largo e lento, spande in mezzo a quella gentilezza la poesia guerriera dei suoi ricordi e delle sue glorie.

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Ma non ha visto Torino chi non ha visto i suoi sobborghi, ciascuno dei quali ha un carattere suo proprio, non abbastanza osservato, forse, neppure dagli stessi Torinesi. C'è da fare un giro curiosissimo, partendo da San Salvario, e andando su per l'antica piazza d'Armi e per il Borgo San Donato, fino a Borgo Dora. Il Borgo San Salvario è una specie di piccola ?city? di Torino, dalle grandi case annerite, velato dai nuvoli di fumo della grande stazione della strada ferrata, che lo riempie tutto del suo respiro affannoso, del frastuono metallico della sua vita rude, affrettata e senza riposo; una piccola città a parte, giovane di trent'anni, operosa, formicolante di operai lordi di polvere di carbone e di impiegati accigliati, che attraversano le strade a passi frettolosi, fra lo scalpitìo dei cavalli colossali e lo strepito dei carri carichi di merci che fan tintinnare i vetri, barcollando fra gli omnibus, i tranvai e le carrette, sul ciottolato sonoro. L'aspetto del sobborgo è ancora torinese, ma arieggia la ?barriera? di Parigi. I portici sono affollati di gente affaccendata, che si disputa lo spazio; le scale delle case risuonano di passi precipitosi; nei caffè si parla d'affari; tutto dà l'indizio di una vita più concitata che nelle altre parti di Torino. è una piccola Torino in ?blouse?, che si leva di buon'ora, e lavora coll'orologio alla mano, senza perdere tempo; che frequenta il teatro Balbo, passeggia sul Corso del Re e va a prendere la tazza al Caffè Ligure, allegra e chiassosa la sera, democratica, un po' rozza, piena di buone speranze, ariosa e pulita, e affaticata, ma che par contenta di sè, in mezzo alla verzura e ai larghi viali che le fanno corona, davanti alla stazione che l'assorda coi suoi fragori e i suoi sbuffi di gigantesca officina.

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Di là andando su per il Corso Vittorio Emanuele, si arriva alla vecchia piazza d'Armi, in mezzo a una cittadina nata ieri, a una specie di giardino architettonico, pittorescamente disordinato, dove ogni settimana sboccia una casa; dove si ritrova l'?h?tel? dei Campi Elisi, la palazzina del Viale dei Colli, la villetta genovese, il casino svizzero, un vero visibilio di capricci sfarzosi, ciascuno dei quali par la protesta d'una bella signora contro l'antica tirannia dell'architettura regolamentare. Le strade strette e discrete, dove il silenzio non è interrotto che raramente dal rumore di qualche carrozza privata, si biforcano e serpeggiano fra i muri variopinti e le cancellate eleganti dei giardini, girando intorno alle case mute in curve rispettose e cortesi, e formando crocicchi simpatici, da cui si vedono qua e là spicchi obliqui di villette lontane, terrazze a balaustri, piccoli portici, giardinetti d'inverno coperti di vetrate, padiglioncini e chioschetti coloriti; dietro ai quali appaiono e dispaiono livree di cocchieri e cuffiette bianche di governanti. Si dimenticherebbe di essere a Torino, se tutti quei tetti acuti, quei cornicioni frangiati, quei camini di forme graziose e bizzarre, non si disegnassero sulla bianchezza delle Alpi. è un quartiere ridente, misto di città e di campagna, pieno di fragranze d'erbe e di fiori, con un leggero color di mistero, un po' femmineo, che fa venir sulle labbra dei versi di Alfredo De Musset, e sveglia mille fantasie voluttuose di amori aristocratici, di scalette di seta e di duelli all'ultimo sangue nel silenzio dei giardinetti chiusi, al chiarore della luna. I giovani romanzieri di Torino si serviranno largamente, senza dubbio, nei loro romanzi avvenire, di questa piccola città pomposa e gentile; e intanto essa s'allarga rapidamente, e si popola da ogni parte, aspettando il Re gigantesco destinato a torreggiare sulle sue case.

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Poco lontano di là, girando a destra, tutto cambia: s'entra in una città militare. L'Arsenale, i Magazzini d'Artiglieria, il Laboratorio pirotecnico, l'Opificio militare meccanico, la Cittadella, la grande Caserma della Cernaia, si stendono in lunga catena da piazza Solferino a piazza San Martino, e danno a quella parte della città un aspetto tutto soldatesco, compiuto dai tre monumenti guerreschi del Duca di Genova, d'Alessandro Lamarmora e di Pietro Micca, che brandiscono le spade e la miccia. Qui a certe ore del giorno par d'essere in una città forte, in tempo di guerra. I coscritti fanno l'esercizio sui viali e sulla piazza Venezia, per le strade passano i picchetti di guardia, i carri di viveri e le vetture d'ambulanza, passano ordinanze del treno a cavallo e ordinanze di fanteria coi bimbi degli ufficiali per mano, escono frotte di carabinieri dalla Cittadella, stormi d'ufficiali dalla Scuola d'equitazione, sciami d'operaie dagli opifici militari; e qualche volta, mentre l'Arsenale d'Artiglieria riempie le strade vicine dei suoi rumori minacciosi, dal Laboratorio pirotecnico si sentono delle detonazioni, la Caserma della Cernaia echeggia di canti e di squilli di tromba, le bande dei reggimenti passano suonando, e le macchine a vapore del genio militare percorrono le strade, facendo tremare le case. Compiscono il quadro i vecchi ufficiali giubilati che leggono la gazzetta all'ombra dei platani, e le lunghe processioni di ?figlie di militari?, vestite di nero e d'azzurro, che passano sui viali, in doppia fila, per ordine di statura. Tutto quel quartiere di Torino piglia colore dall'esercito. Sotto i portici ci son le piccole trattorie che tengon pensione, affollate d'ufficiali verso l'imbrunire, camere mobiliate e libere ai mezzanini, gran quadri di fotografi, pieni di militari puliti e lustri, voltati tutti di prospetto, piccoli banchi di merciaiuoli, dove il soldato va a comprare lo specchietto, la pipa, il foglio di carta da lettera e la matassina di filo, e pilastri tappezzati di giornali popolari illustrati, per chi vuole ingannare il tempo nel corpo di guardia e nella stanza di picchetto. La popolazione ha pure il suo carattere speciale. La gente di bottega conosce i segnali delle trombe e gli orari, le erbivendole parlano di ?traslocazioni di corpi? e di ?campi d'istruzione?, e i monelli fischiano le arie della ritirata. è una piccola Torino in armi, balda e allegra, nella quale s'incontra una sentinella a ogni passo, e si cammina, la notte, sotto la perpetua minaccia del ?chi va là?; bella e pittoresca sopra tutto di notte; coi suoi lunghi muri silenziosi, coi suoi vasti cortili nascosti, quando la luna batte sui merli della grande caserma di Alfonso Lamarmora, e pende

Comme un point sur un i

sul carabiniere solitario, ritto davanti al suo casotto, sopra gli spalti deserti della Cittadella addormentata.

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Andando innanzi verso ponente, oltrepassato il Borgo di San Donato, che s'allunga sopra una strada sola, pigliando gradatamente l'aspetto di un villaggio grazioso, s'entra, per il Corso Principe Eugenio, in una parte di Torino stranissima, poco nota, nella quale la città si perde nella campagna, e dove son raccolti i principali istituti di beneficenza, fra cui il Ritiro del buon Pastore, l'Ospedale di San Luigi, il Manicomio, lo Stabilimento di don Bosco, l'Ospedale di Cottolengo; edifizi chiusi e muti, dall'aspetto di conventi e di carceri, colle persiane rovesciate, coi finestrini ingraticolati, con porte e porticine sbarrate, che danno al luogo l'aspetto misterioso d'un quartiere di città orientale. Qui vive un mondo invisibile d'infermi, di vecchi, di traviate, di ?preservande?, di ragazze abbandonate, di bimbi senza parenti, di giovinetti poveri, di maestre e di suore che pregano, soffrono, studiano, lavorano, si preparano alla vita e alla morte, separati dal mondo, nel raccoglimento severo della loro piccola città solitaria. Le strade sono quasi deserte. Passano carrozze colle tendine calate, s'incontran preti, qualche monaca, poveri, si sentono canti di bambini, echi lontani di litanie, rumori di porte interne aperte e chiuse cautamente, e tintinnii di campanelli di parlatorii, a cui succedono silenzi profondi. Tutto spira pace, rassegnazione e penitenza. Chi passa di là abbassa la voce senz'avvedersene; scorda la Torino rumorosa del lavoro e dei piaceri, e s'abbandona, rallentando il passo, alla meditazione dei dolori e delle miserie umane, punto da una curiosità triste di penetrare in quei recinti severi, d'interrogare quelle sventure, di scrutare quel mondo sconosciuto e nascosto, a cui tanta gente pietosa consacrò la vita e la fortuna. E alla tristezza di quel quartiere singolare, corrisponde la campagna circostante, piana e silenziosa, specialmente d'inverno, all'ora del tramonto, quando al di sopra delle case e dei campi coperti di neve, già immersi nell'ombra azzurrina della sera, scintilla ancora sotto l'ultimo raggio del sole l'alta statua dorata di Maria Ausiliatrice, ritta sulla cupola della sua chiesa solitaria, colle braccia tese verso le Alpi.

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Proseguendo di là per il Corso San Massimo s'arriva alla grande piazza ottagonale di Emanuele Filiberto. Ma per vederla in tutta la sua bellezza bisogna capitarvi una mattina di sabato, d'inverno, in pieno mercato. Uno Zola torinese potrebbe mettere lì la scena di un romanzo intitolato ?Il ventre di Torino?. Sotto le vaste tettoie, fra lunghe file di baracche di mercanti di stoffe, di botteghini di chincaglierie e d'esposizioni di terraglia all'aria aperta, in mezzo a monti di frutta, di legumi e di pollame, a mucchi di ceste e di sacchi, tra il va e vieni delle carrette che portan via la neve, tra il fumo delle castagne arrosto e delle pere cotte, gira e s'agita confusamente una folla fitta di contadini, di servitori, di sguatteri, di serve imbacuccate negli scialli, di signore massaie, di ordinanze colla cesta al braccio, di facchini carichi, di donne del popolo e di monelli intirizziti, che fanno nera la piazza. Intorno ai banchi innumerevoli è un alternarsi affollato e continuo di offerte e di rifiuti, di discussioni a frasi secche e tronche, di voci di maraviglia e di sdegno, d'apostrofi e di sacrati, che si confondono tutti insieme in un mormorìo sordo e diffuso, come d'una moltitudine malcontenta. Là bisogna andare per vedere le erbivendole famose, formidabili di tarchiatura, di pugni e di lingua, e per studiare la potenza insolente del vernacolo, la ferocia spietata dell'ingiuria plebea, il lazzo che schiaffeggia, il sarcasmo che leva la pelle, strazia la carne e incide le ossa. Da una parte c'è il mercato delle contadine, venute da tutte le parti del circondario, partite a mezzanotte dai loro villaggi per arrivare in tempo a pigliare un buon posto a destra e a sinistra d'un viale fiancheggiato di platani; e son là schierate, ritte o sedute, colle loro derrate esposte su mucchi di neve sudicia, strette le une alle altre come per tenersi calde, inzoccolate, imbottite, infagottate, fasciate di pezzuole e di scialli, con guanti di cenci e con fazzoletti attorcigliati intorno alla fronte, con cappelli da uomini sul capo, con vecchi mantelli da carrettiere sulle spalle, e lo scaldino fra le mani, coi nasi e i menti pavonazzi; e in mezzo a loro passa la processione accalcata e lenta dei compratori. Qui un pretucolo soffia tra le penne d'un pollo per scoprire le polpe, là una vecchia signora cogli occhiali spera le uova ad una ad una di contro alla luce, più in là un vecchio celibe, accompagnato dalla cuoca con la sporta, scruta un formaggio con la lente; da ogni parte si tasta, si palpa, si soppesa, si fiuta, si disputa, in un tuono di lamento stizzoso, gesticolando coi cavoli in mano, brandendo i cardi, scotendo le galline, gettando nelle orecchie di chi passa frammenti di dialoghi monosillabici, che fanno indovinare dei tira tira d'un'ora per un centesimo, delle economie disperate, delle avarizie rabbiose, delle pazienze da santi, delle miserie segrete di famiglie decorose, tutte le durezze e le angosce della gran lotta per la vita. Passano signorine eleganti, grossi borghesi buongustai, cuochi grassi e tronfi, cameriere padrone, curiosi allegri, una folla continuamente cangiante, fra cui si fanno largo ogni specie di rivenditori ambulanti, vecchi decrepiti, bambine, mostriciattoli col botteghino al collo, che offrono un almanacco, un tartufo, due limoni, una catenella d'acciaio, un pezzo di tela, facendo un vocìo assordante, dominato dalla voce stentorea del venditore della ?Cronaca dei Tribunali? e dalla cantilena funebre del sacrestano che scuote un bossolo domandando l'elemosina per le anime del Purgatorio. Per tutta la piazza è un affaccendamento e un rimescolìo rumoroso, un farsi e un disfarsi continuo di crocchi intorno a carrozze di cavadenti, a venditori di specifici, a strimpellatori di violini, a banditori d'incanti, a ciarlatani cappelluti che raccontano storie di delitti davanti a grandi quadri rosseggianti di sangue, a teatrini da burattini, rizzati in mezzo alla neve, a grandi fiammate di paglia, accese dai fruttaiuoli infreddoliti per sgranchirsi le membra. E non si può dire quant'è pittoresca e bizzarra quella confusione di gente e di cose, di lavoro e di festa, di città e di campagna, vista a traverso la nebbia della mattina, che lotta ancora col sole, in mezzo a quei grandi alberi sfrondati, imperlati di brina.

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D'in fondo alla piazza, scendendo per una gradinata, si riesce in una larga strada ricurva, che va verso la Dora, davanti a un altro spettacolo curiosissimo. La strada è tutta da un capo all'altro una sola enorme bottega di rigattiere all'aria libera, un'esposizione grandiosa e compassionevole di miserie, di cui non è possibile farsi un'immagine fuorchè supponendo che un intero quartiere di Torino, invaso da un furore di distruzione, abbia rovesciato giù dalle finestre tutte le masserizie delle sue case, dai solai alle cantine, fino all'ultima carabattola dell'ultimo armadio. E tutto è ordinato, pulito, messo in vista, con una cura scrupolosa, come la merce più rara, e accanto a ciascuna delle cento rigatterie, che formano quell'interminabile bazar di cenci e di tritumi, siede il venditore meditabondo, appoggiato alla sua carretta, in atteggiamento filosofico, cogli occhi fissi sulle rovine da cui ricava la vita. La varietà e la stranezza degli oggetti è maravigliosa. è una confusione di cose e d'avanzi di cose da far impazzire il disgraziato che ne dovesse far l'inventario. La pianeta del prete, il cappello sfondato del bersagliere, la marionetta rotta del teatrino di San Martiniano, il vestito di seta lacerato al veglione del teatro Scribe, la serratura del cinquecento, il romanzo incompiuto di Eugenio Sue, il chiodo rotto, il basto dell'asino, il quadro a olio, il berretto piumato del tenore, denti finti, spille scapocchiate, padelle senza manico, elmi, mappamondi, gambe di tavola, spogli d'alcove, di salotti, di studi d'avvocato, di soffitte, d'officine, di taverne, muffiti, sbrindellati, rosicchiati dai topi, bucati dalle tignole, marciti dalla pioggia, smangiati dal fango, consunti dalla ruggine, senza colore, senza forma, senza nome, senza prezzo: c'è tutto quello che il mare agitato della vita umana rigetta da sè, tutto quello che la mente può immaginare di più miserabile, di più inutile, di più spregevole, di più rifinito e di più snaturato dal tempo, dall'uso e dalla violenza. In quello strano mercato comincia il lavoro nel cuor della notte, al lume delle lanterne, e il formicolìo della folla allo spuntare dell'alba. Là va la sartina, furtivamente, a cercare lo scialle smesso; ci va il padre di famiglia, corto a quattrini, a comprare il lume a petrolio; ci va l'artista a scovar l'abito per il modello; ci va l'antiquario, il bibliomane, l'attore spiantato, l'ebreo rigattiere, una processione di collettori di bagattelle e di curiosi d'ogni specie, impazienti tutti d'arrivare i primi a pescare in quel mare magno in cui si nascondono qualche volta tesori sconosciuti e piccole fortune insperate; e tutti girano e cercano avidamente fino a giorno alto, in mezzo a un via vai di contadini e di contadine che contrattano panni logori, di cenciaiuoli girovaghi, carichi di stivali sdrusciti e di pentole fesse, di facchini, di raccoglitori di cicche e di carte, di guardie municipali, di donne di servizio, di bottegai, di sensali, che fluttuano in due opposte correnti fra il mercato dell'erbe e il gran pandemonio della piazza vicina.

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Chi ha fatto questo giro, e s'è ancora spinto poi, per il corso San Maurizio, fino in faccia al Borgo Po, che chiude come uno scenario graziosissimo il grande palcoscenico della piazza Vittorio Emanuele, ha visto la città di Torino. Ma gli resta da studiare il movimento e l'aspetto della popolazione, che è pure curioso. Il più grosso torrente della vita scorre dalla stazione di Porta Nuova fino a Piazza Castello, dove arriva gonfiato dall'affluente di via Santa Teresa; e là si rispande per via di Po e per via Dora Grossa, e serpeggia in mille rigagnoli per le vie strette della vecchia Torino, fino al gran lago ondeggiante della piazza Emanuele Filiberto. La gente si perde nella vastità delle piazze, dove non si vedono che ?rari nantes?; presenta un aspetto generale d'eleganza nell'ultimo tratto di via Roma e sotto i portici, e piglia gradatamente un colore modesto e popolano, via via che scende verso il fiume o risale verso i quartieri di settentrione e di ponente. L'ordine è nella folla come nell'architettura: passa una processione a destra e una processione a sinistra d'ogni strada, l'una opposta all'altra: da una parte non si vedono che nuche, dall'altra non si vedono che visi. Certi personaggi si succedono con una frequenza che si nota subito: il vecchio giubilato, sbarbato e pulito, che va rasente il muro; il giovane ufficiale d'artiglieria della Scuola d'applicazione; lo studente vestito con una certa sprezzatura d'artista; la sartina dal corpicino snello e asciutto, con quattro cenci addosso, messi con garbo signorile e aggraziati da un'andatura capricciosa insieme e composta; l'operaio di statura media, d'aspetto rude, di membra solide, di movimenti da soldato; l'uomo nuovo, l'industriale, il commerciante, l'agente d'affari, fra i trenta e i quarant'anni, trascurato nel vestire, di viso serio, grigio innanzi tempo, leggermente invermigliato dal Barolo vecchio, col sigaro di Cavour spento fra le dita della mano inquieta, e un pensiero fisso sulla fronte; il grosso padre di famiglia, borghese benestante, con un viso benevolo, che manifesta poche idee, ma quelle poche nette e salde, e inchiodate profondamente nel cervello, nella coscienza e nel cuore, e tratto tratto qualche signora alta, sottile e bianca, coll'occhio azzurro e il piede patrizio, che fa col suo mantello di velluto nero una macchietta vigorosa e pomposa nel grigio volgare della folla. Tutti camminano guardando diritto davanti a sè; si discorre senza rallentare il passo; poche conversazioni ad alta voce; nessuna apostrofe da un lato all'altro della strada; si parla a mezza voce, a frasi spedite, gesticolando in uno spazio circolare di non più di due palmi di raggio, e risalendo prontamente sul marciapiede, per forza d'abitudine, ogni volta che s'è stati costretti a discendere. E già, nelle strade frequentate, si vede, come nelle grandi città del nord, una gara ad arrivare i primi, a lasciarsi indietro chi ci cammina accanto, come se ogni vicino fosse un concorrente in affari. Tutte le scorciatoie sono utilizzate, si svolta rasente i muri, s'attraversa la strada di corsa, s'inseguono i tranvai, si fa folla agli incrociamenti delle carrozze e dei carri, e s'apostrofano carrettieri e cocchieri con voci e gesti impazienti di gente che ha i minuti contati. Ma una certa apparenza di gentilezza corregge il carattere un po' aspro di questa vita frettolosa di città industriale. I saluti sono premurosi, i cappelli s'abbassano profondamente, la gente si scansa con giri svelti e larghi, i bottegai riaccompagnano i compratori alla porta in atto cerimonioso, il cameriere si inchina all'avventore sulla soglia della trattoria, il fiaccheraio riverisce la ?pratica?, il venditore di giornali ringrazia del soldo con un buon augurio, le erbivendole si chiamano ?madama?, le due frasi spicciole del galateo torinese ?ca fassa grassia? e ?ca scusa? si sentono da ogni parte e ad ogni proposito come il ?pardon? e il ?s'il vous plait? a Parigi; la città fa i suoi affari alla lesta, ma con dignità, da signora educata, non da rozza merciaia. E come Parigi ha l'?ora dell'assenzio?, Torino ha l'ora del vermut, l'ora in cui la sua faccia si colora e il suo sangue circola più rapido e più caldo. Allora le scuole riversano per le strade nuvoli di ragazzi, dagli opifici escono turbe di operai, i tranvai passano stipati di gente, gli equipaggi s'inseguono, le botteghe dei liquoristi s'affollano, un esercito d'ufficiali e di soldati d'ogni arma si spande in ogni parte e mette un soffio di gioventù per le vie, e nella mezza oscurità della sera par di vedere Torino come all'immaginazione piace di raffigurarsela in un avvenire lontano: una Torino di cinquecentomila abitanti, che riempia la sua cinta daziaria, con un nuovo centro e nuovi sobborghi, tutta sonante di lavoro e rigurgitante di vita.

Ma il più bello spettacolo vivo, e nello stesso tempo il più originale, che offra Torino, è la passeggiata sotto i portici di Po, le sere d'inverno. I portici sono i ?boulevards? di Torino. L'albergo d'Europa può rappresentare il ?Grand H?tel?; la chiesa dell'Annunziata, la ?Madeleine?; il caffè Fiorio, ?Tortoni?; il Teatro Regio, il ?Grand Opéra?. Anche qui la folla maggiore, e il fiore dell'eleganza e del lusso passano a destra. La prima cosa che dà agli occhi è il contrasto della bottega splendida col baraccone da villaggio che le sorge in faccia, nello stesso tempo officina e negozio; il banco della fruttaiola di fronte alla trattoria aristocratica; il rivenditore d'almanacchi e di libri usati in faccia al grande libraio signorile. La contessa vestita in gala passa accanto ai banchi di legumi e di caci, la conversazione leccata dei __dandy__ è interrotta dall'urlìo plebeo dei cavamacchie e dei venditori di fotografie; tutto il mondo elegante sfila in mezzo a quella lotta muta e continua del grande e del piccolo commercio, schierati l'uno di fronte all'altro, in atteggiamento ostile, come due catene di sentinelle avanzate dei due grossi eserciti nemici della borghesia e della plebe. Qui la folla è fitta e nera, divisa in due correnti, che si toccano, e spesso si confondono, e straripano fuori dei portici. In alcuni punti è un vero serra serra, come all'uscita da un teatro, tanto che nello spazio di tre braccia quadrate si ritrovano spesso un capitano d'artiglieria, una coppia matrimoniale, un prete, un accademista, una crestaia, un operaio, stretti in un mazzo, che paiono una famiglia sola. Qualche volta per pigliar spazio la folla è costretta a fermarsi, e tutti ?segnano il passo? come una colonna di soldati. L'aspetto e il contegno generale è grave, come l'andatura, e come disse un professore arguto, sembra che tutti ?meditino un regolamento?. La gente gira tutt'intorno alla Galleria Subalpina, a passi lenti, processionalmente, come nella sala d'un museo, non facendo che un leggiero bisbiglio, che lascia sentire distintamente le note acute dei cantanti nella sala sotterranea del Caffè Romano. Sotto i portici non si sente che un mormorìo sordo ed eguale, fra cui risuonano forte, qua e là, le sciabole degli ufficiali e le risa argentine delle fioraie e delle sartine, che fanno una scappata a traverso al bel mondo, coll'involtino in mano, prima di tornare a casa, e i colpi secchi delle porte dei caffè aperte e richiuse bruscamente per timore del freddo. Par di essere in una galleria d'un palazzo grandissimo, dove i convitati sfilino rispettosamente al cospetto d'un principe. E siccome gl'incontri sono frequentissimi e si ripetono, così è un salutarsi continuo di militari, un continuo scappellarsi d'amici e di conoscenti, di studenti e di professori, di grossi e di piccoli impiegati, che si voltano obliquamente, passandosi accanto, per non urtarsi nel petto. Della gente non si vede che il viso e i fiati fumano. Ma i baracconi riparano dal freddo. Si sta bene in quella calca, così stretti, l'uno addosso all'altro, e pare che tutti provino piacere a pigiarsi, a sentirsi davanti, dietro e dai lati dei pesanti pastrani, dei grandi mantelli d'ufficiali, dei grossi borghesi ben pasciuti e caldi, usciti allora da una sala da desinare. Da tutte le strade laterali arriva gente, chiudendo l'ombrello, pestando i piedi, scuotendo i panni bianchi di neve, e tutti si ficcano in quella folla, con gusto, tirando un respiro, come se entrassero in casa. E la folla essendo così pigiata, si colgono a volo da tutte le parti, passando, brani di dialoghi sommessi, frammenti di discussioni scientifiche, giudizi letterari di studenti, notizie sullo stato dei fondi pubblici, qualche volta frasi staccate di confidenze di signorine, che un'ondata di gente ha separate dai parenti che vengon dietro, conversazioni francesi e tedesche, parole dolci vibrate a bruciapelo nei momenti di maggior confusione: specialmente allo svolto dei portici in faccia alla Galleria, dove accade spesso d'incontrarsi faccia a faccia con marito e moglie, e sentirsi ad un punto il fumo del sigaro del marito negli occhi, il manicotto della signora contro le mani e la testa del bimbo in un fianco. Chi non c'è abituato, può seccarsi sulle prime, e impazientarsi di quello strano modo di passeggiare; ma tutti, prima o poi, ci pigliano piacere. C'è non so che idea di intimità domestica in quel lento va e vieni di gente affollata sotto quegli archi, dinanzi a quelle vetrine splendide, che finiscono con lo stamparsi nella memoria, ad una ad una, come i mobili della casa propria; c'è un'apparenza come di affratellamento e di buon accordo universale, un'immagine viva di quell'unanimità di sentimenti e di propositi che fece forte e ammirato il popolo piemontese, qualche cosa di geniale e di benevolo, che non si sa ben dire, ma che mette un calor salutare nel petto, dalla parte sinistra.

Torino, però, si presenta in molti aspetti molto diversi, che un forestiero non può osservare in pochi giorni. Ci son poche città che cambino viso così stranamente col cambiare della stagione e del tempo. Ha una bellezza sua propria quando è coperta di neve, quando le Alpi son tutte bianche, le colline bianche, i giardini, gli alberi dei viali lunghissimi, i larghi corsi, le grandi piazze, tutto bianco; specialmente di notte, quando a traverso la neve fitta, che vela la luce delle file interminabili dei lampioni, non si riconoscono più le vie, si confondono i crocicchi, la città sembra immensa, e nei vasti spazi deserti regna un silenzio cupo di città disabitata, in cui fuggono e spariscono come ombre impaurite le carrozze e la gente, e vi par spenta la vita per sempre. è bella anche nelle mattinate d'inverno grigie e rigide, quando il cielo coperto piglia successivamente mille colori strani di viola, d'oro e di porpora, che paiono riflessi di grandi incendi lontani, e ogni strada è chiusa da una cortina di nebbia, come dal fumo del fuoco di fila d'una barricata, nel quale i monumenti si drizzano come larve, e le persone appariscono all'improvviso, come se sbucassero di terra, e tutta la popolazione affaccendata della mattina, morsa dal freddo, precipita il passo, batte i piedi, stropiccia le mani, soffia sulle dita, saltella e scantona ad un angolo retto, con le spalle ingobbite e il gomito al muro, come se fosse inseguita e sferzata da una legione d'aguzzini invisibili, e par che i raggi del sole s'arrestino intimiditi sui cornicioni delle case, e che la città sia condannata al gelo e alla mezza luce d'un'alba perpetua. Ma è bella sopra tutto di primavera, in quei giorni che da un inverno lungo e uggioso si salta improvvisamente nella bella stagione, e si sente la verità di quello che disse George Sand: la primavera dell'Italia settentrionale è la più bella del mondo. Allora Torino si riscuote tutta, e par che ringiovanisca in poche ore; la popolazione si spande per i giardini e per i viali, come a una festa; per le grandi strade passano torrenti di luce e d'aria; a ogni cantonata par che soffi una brezza nuova; si sentono ondate d'odor di campagna e di fragranze alpine, che dànno una scossa al sangue; il cielo, le montagne, le colline, gli sfondi lontani delle vie, tutto è terso, netto, fresco, allegro; Torino ha l'aria d'una città americana, venuta su da pochi anni, nel primo sboccio della sua verde adolescenza; ma dorata da un raggio di bellezza italiana.

Ma per veder Torino nel suo più bell'aspetto, bisogna vederla nell'occasione d'una di quelle grandi feste nazionali, in cui accorrono qui Italiani d'ogni provincia, vecchi ministri che vi passarono i più belli anni della loro età matura, deputati maturi che vi passarono gli anni più belli della gioventù, giornalisti che vi fecero le prime armi, ricchi che ci vissero nella strettezza, antichi emigrati, senatori, generali, tutti i superstiti di quella grande legione di uomini di Stato, di scrittori, di lottatori, di soldati, di tribuni, che preparò e iniziò qui la rivoluzione italiana, e se n'andò con la capitale. è bello e commovente quel ritorno. Tutti hanno qui mille memorie; sparpagliandosi per la città, ne ritrovano una ad ogni passo; riconoscono luoghi e persone, rivedono col pensiero gli amici e i compagni perduti, ricordano alla svolta d'ogni via, si può dire, un avvenimento e una commozione. Il popolo torinese è tutto in giro, e in quei giorni rivive anch'esso in quel bel tempo, che par già tanto lontano, in quei begli anni di speranze e d'entusiasmi; anch'esso riconosce a ogni passo un ospite antico, deputati incanutiti, generali incurvati, gravi pubblicisti di cui ha letto le prime appendici letterarie, ministri che vivevano in una cameretta al quarto piano in via Dora Grossa, visi, voci, gesti che ravvivano tutti i suoi più cari ricordi e gli fanno battere il cuore. Allora certi luoghi della città, certi angoli storici ripigliano per qualche ora l'aspetto antico; si rivedono nei vecchi caffè i personaggi e i crocchi d'una volta; da ogni parte si stringono mani d'amici, si alternano esclamazioni di stupore e di piacere, e conversazioni concitate, piene di domande, di date, di nomi, di parole tristi e affettuose, e di echi sonori delle antiche passioni giovanili; e piazza Castello si rianima, e sotto i portici ripassa un soffio del cinquantanove, e tutta la città si sente rifluire al cuore il suo vecchio sangue di guerriera e di regina, e apparisce più bella e più altiera in mezzo alla vasta cintura verde dei suoi platani e al grande anfiteatro azzurro delle sue Alpi.

FIRENZE

(Giugno, 1871).

Un Piemontese, che deve andare a Roma tra poco, sentì il bisogno, qualche giorno fa, di mandar un saluto alla città di Firenze, e pensò di mandarglielo dalla cima della collina di Fiesole.

Una di queste sere, poco prima del tramonto, prese la via di porta a Pinti, solo soletto, come un pellegrino, e tirò innanzi a capo basso, almanaccando. La strada era deserta. Egli, che vi era passato molte volte nei giorni di festa, quando vanno e vengono tante famigliuole di operai e brigatelle di giovani e coppie d'innamorati e villeggianti e carrozze, quella sera, non vedendo anima viva, si sentiva prender dalla malinconia. Andava su a passo lento, si fermava dinanzi ai cancelli chiusi delle ville, dinanzi alle chiesuole, ai tabernacoli, ai muri scarabocchiati col carbone; girava tratto tratto, dai punti più alti, uno sguardo sulla campagna: per tutto era quiete e silenzio. Incontrò qualche povero, inciampò in una vecchia addormentata sullo scalino di una porta, arrivò a San Domenico, e su, per la strada più corta.

Per tutta la salita non si voltò mai a guardar la città. Non voleva sciuparsi l'effetto del colpo d'occhio più bello da godersi lassù, dinanzi al convento.-Poichè è l'ultima volta che la vedo,-pensava,-la voglio veder bene, tutt'a un tratto, come al cader di un velo.-E faceva tra sè quei ragionamenti fanciulleschi che si fanno in tali occasioni, quasi per darsi un'illusione di sorpresa:-Che cosa si vede lassù? Che città c'è nel piano? Dove sono? Dove vado?

Arrivato in cima, accanto al muricciuolo, prese fiato, e poi si voltò tutto a un tratto verso Firenze.

Lo spettacolo, quel giorno, era più stupendo che mai. Il cielo lucido e quieto di una pace allegra; una striscia di nuvole aranciate all'orizzonte; il resto puro: le cime delle colline lontane pareva che fendessero l'azzurro; una freschezza primaverile spirava nell'aria. Sotto, tutto quel saliscendi di poggi e di vallette, simile a un solo immenso prato depresso qua e là, lievemente, come dal premere d'una mano carezzevole, mossa da una fantasia capricciosa; tutto un verde leggiero, variato sui punti eminenti del verde cupo dei cipressi, disposti a file e a corone; interrotto da prati fioriti; listato di strade, di viali, di sentieri bianchi, che s'incrociano, s'inerpicano sulle cime, precipitano dal lato opposto, e spariscono e riappariscono in distanza; casette, gruppi di case, ville su tutti i rialti, nette, spiccate, che par che i colli le buttino innanzi come per porgerle; oltre la città un piano vastissimo, coperto d'una nebbia leggiera, a traverso alla quale biancheggiano le case lontane, come vele sul mare; e su tutta questa sterminata corona di colli, di villaggi, di ville, di giardini, ogni cosa che par che guardi a Firenze, e voglia scendere e precipitarle nel seno: l'ossatura d'una città immensa che non si può immaginar compiuta senza un senso di sgomento; uno spettacolo pieno di bellezza che fa pensare, e di maestà che sorride.

-Mah!-esclamò il giovane con un sospiro, sedendosi sul muricciuolo, con le spalle volte a Firenze, per raccoglier meglio i suoi pensieri.-è pure una dura legge che, quando s'abbandona una città, oltre al rammarico di separarsi dagli amici e di rompere molte abitudini che erano diventate care, uno si debba accorgere che vi sono ancora da sciogliere altri legami: legami che lo tengono attaccato ai muri delle case, ai piedistalli delle statue e agli alberi dei viali..... Cinque anni! Mi par d'essere arrivato a Firenze ieri. Era una brutta giornata, nevicava, non c'era anima nata per le strade. Mi parve una città malinconica. Uscito appena dalla stazione, infilai via Panzani; diedi un'occhiata, passando, a via Tornabuoni: con quelle case di colore scuro, mi fece l'effetto d'una strada tetra; andai oltre, vidi il Duomo, m'affacciai a via dei Servi: mi parve un corridoio di convento; tirai innanzi fino a via San Sebastiano: fu peggio. Mi sentivo soffocare in quelle stradette, mi pareva che vi mancasse l'aria e la luce; m'uggivano tutte quelle casucce, addossate le une all'altre, strette come persone che si pigino, con quelle porticine che paion buche; una casa alta come una torre, una bassa come una capanna, una grossa, una mingherlina, una avanti, una indietro, tutte di sghimbescio, come buttate là a caso.... Piovve per molti giorni. Io stavo in via Pietra Piana, verso la Porta, e passavo dell'ore alla finestra, guardando nella strada, solo e pensieroso. Ad ogni sbatter d'uscio, la casa tremava tutta come se volesse cadere.-Ci restassi sotto!-dicevo-tanto ho da crepare di malinconia....

Poi venne il bel tempo, e col bel tempo l'umore allegro.

Passarono tre o quattro mesi.

Un bel giorno osservai che per andare da casa all'ufficio ero passato ogni mattina per la stessa via; mi maravigliai di non aver mai pensato a prenderne un'altra, e me ne domandai la ragione.-Forse, dissi tra me, è l'effetto di quella tal casa che vedo di scorcio sulla cantonata, appena son fuori della porta. Sarà fors'anco la chiesa che c'è di rìmpetto. O son le finestre del palazzo accanto a casa mia, che guardo sempre. O i bassorilievi del palazzo più piccolo ch'è vicino alla chiesa. O sono tutte queste cose insieme.-Poi, fermandomi in mezzo a una piazza, mi venne fatto di domandarmi che cosa fosse che mi tratteneva, in quel certo punto e in quel certo modo, con l'aria e col sentimento di chi sta in casa sua; perchè mi pigliasse la voglia di appoggiare le spalle al muro e di finire il mio sigaro in pace; come non mi potessi trattenere dal chiamar gli amici che passavano, e attaccar discorso, e far crocchio, e sciupare in chiacchiere una mezz'ora. Cercai di spiegare a me stesso il perchè avessi contratto l'abitudine di rallentare il passo a quella tal svoltata, di guardare intorno su quel tal crocicchio, di andar oltre col viso in aria....

Una mattina m'accorsi con stupore di avere nel capo, distinte ad una ad una, le immagini d'una cinquantina di case di strade diverse, delle quali avrei saputo dire, senza rischio di sbagliare, il colore della facciata, la forma delle finestre, il disegno degli ornati. Guardai meglio quelle case, ripassandoci davanti; e quanto più le guardavo, tanto più mi pareva che avessero tutte un'aria propria, che so io? un significato, qualche cosa che mi faceva pensare. L'una sentivo che l'avrei scelta di preferenza per invitarvi degli amici a cena, e menarvi una vita allegra: mi pareva che sorridesse. In un'altra ci sarei stato più volentieri a studiare, solo, raccolto, con una gran biblioteca: aveva un aspetto grave insieme e sereno. In una terza pensavo che non ci si potesse vivere che facendo all'amore, tanto aveva le forme snelle e la tinta gentile. Gli architetti di quelle case bisognava che fossero giovani simpatici; dovevano aver voluto dir tutti alcun che con quei disegni, e s'erano fatti tutti capire. Man mano che passavo per quelle vie, mi s'affollavano alla memoria versi, scene di romanzo, episodi storici, ariette d'opera. E alzando gli occhi ai palazzi, alle torri, ai campanili, agli archi grandiosi, mi cominciava a parere strano che, in luogo d'ispirare quell'ammirazione subitanea e profonda, mista quasi ad un senso di terrore, che sogliono ispirare i monumenti giganteschi, costringessero invece, quando si voleva esprimere con parole l'effetto delle loro bellezze, a servirsi degli aggettivi stessi che s'usano per designare un bel fanciullo, un bel fiore, un bel ninnolo, come:-Gentile, amabile, caro.... Guardando quelle torri, quei palazzi, sorprendevo spesso in me medesimo un desiderio bizzarro, come di fare scorrere la mano su quei contorni, di palpare quei rilievi; e con questo desiderio, una specie di sollecitudine gelosa per quelle moli enormi di pietra, come se temessi che la menoma forza le potesse offendere e sciupare; e con questa sollecitudine, un bisogno vivo e continuo di correrle e di ricorrerle con quello sguardo d'amante che avvolge, e striscia, e lambe, e si stanca sulle forme amate.

-Ma queste linee si muovono,-esclamavo tra, me-v'è qualche cosa che si stacca e va su; c'è senso e vita in quelle forme:-Cominciai a capire certi amori ardenti per le glorie artistiche del proprio paese, e mi compiacqui nel cogliere sul viso degli stranieri, che si fermavano sulla piazza, la prima espressione della maraviglia e del diletto. Presi l'uso di passare e di fermarmi tutti i giorni, a quell'ora, in quei luoghi. M'accorsi che ogni giorno quella contemplazione di pochi istanti mi metteva in un corso d'idee alte e belle; sentii poi che la facoltà di quella maniera di diletto si rafforzava e s'estendeva ad altre forme dell'arte; che quel gusto del semplice e del grande s'insinuava anche un po' nel sentimento e nel giudizio mio riguardo a cose che con l'arte non avevan che vedere, a fatti, a persone, a costumi; mi parve d'essere riuscito, per effetto di quel culto gentile, a domare certi moti impetuosi e quasi selvaggi dell'animo mio, a dare alla mia indole un che di più liscio e di più morbido, a migliorarmi in qualche cosa. Per questo presi ad amare quelle linee, quelle forme, quei colori; e non mi pareva più pazzo il ?Pieruccio? dell'?Assedio di Firenze?, che, povero e abbandonato, sente ancora un palpito di gioia segreta, sollevando gli occhi pieni di lacrime ai monumenti della sua cara città natale....

Questo seguì a me ed a molti. Ma per chi sia venuto qui nel fiore della giovinezza, con quell'irresistibile bisogno di aprire il proprio cuore e di gridare:-Guardate!-che ci assale appunto negli anni in cui si comincia a esser uomini e s'è tuttavia un po' fanciulli;-per chi sia venuto qui coll'intima coscienza di esser atto a fare qualcosa, senza saper che, nè come, nè quando; con un presentimento confuso, con un desiderio inquieto, con quella forza dentro che s'agita, e tenta e non rinviene l'uscita; per chi, essendo venuto qui in quello stato, abbia sentito, al lume di questo cielo e all'ombra di questi monumenti, squarciarsi come un velo che gli avvolgeva l'ingegno, tutte le facoltà ravvivarsi con impeto e ordinarsi con armonia, e dal tumulto, prima infecondo, della mente e del cuore prorompere per la prima volta, rozzi, ma ardenti e liberi, gli affetti, i pensieri, le immagini;-per chi sopra tutto abbia raccolto qui, con lungo amore, le forme e le parole da poter significare ed espandere l'animo suo, affratellandosi col popolo per sorprendergliele sulle labbra, ricominciando qui, per così dire, un'altra infanzia, rinnovando quasi la sua natura, aspirando continuamente e avidamente quest'aura vergine della vita italiana, per farsene sangue, e informarsene il cuore e il cervello, superbo oggi d'esservi riuscito, disperato domani di non riuscirvi, ma sempre risoluto, ostinato e appassionato; per costui non ci sarà nè parola nè omaggio che basti a significare l'affetto e la gratitudine che deve sentire per Firenze, sua ispiratrice e maestra.

Quando, a tarda notte, nel silenzio della sua cameretta, dopo un lungo lavoro condotto con furia febbrile egli sentiva bisogno di smorzare il fuoco che gli ardeva le fibre, Firenze gli diceva:-Vieni!-e gli offriva la splendida pace delle sue notti serene, l'Arno colorato di fuoco e il bel colle di San Miniato illuminato dalla luna; e in quello spettacolo gentile e solenne l'anima sua si quetava. E quando, dopo aver lungamente faticato e sudato invano per dar forma e vita a un concetto riposto o a un'immagine bella che gli appariva, in barlume alla mente, egli buttava la penna sconfortato e si slanciava fuori di casa, Firenze, offrendogli allo sguardo i miracoli dell'arte affollati nella sua piazza famosa, gli diceva:-Ecco la bellezza!-ed egli in quella bellezza confortava e appagava l'animo, pensando ch'ella era italiana, e il suo orgoglio umiliato d'artista moriva senza dolore nell'alterezza legittima e santa di cittadino. E quando in certi momenti di sfiducia desolata e di abbattimento mortale egli piangeva la sua provata impotenza e le sue speranze deluse, Firenze gli diceva:-Migliaia di giovani, e quanto migliori di te! io vidi, fra le mie mura, lasciar cadere la mano disperata sopra un foglio bagnato di lagrime o sopra un marmo spezzato; dolori che straziano il cuore, e gettano anzi tempo nella tomba, io conobbi e nascosi; ed erano anime grandi. E tu, miserabile, che pretendi, e chi accusi?-E allora egli si ravvedeva e taceva, e da quella confusione salutare traeva nuova forza e nuovo coraggio per combattere, perseverare e soffrire.

A questo punto, preso da un'ispirazione diversa, il nostro amico si voltò improvvisamente alla campagna ed esclamò in atto drammatico, non senza un leggiero accento di tristezza:-Addio, dunque, bel colle di Settignano! addio Patrolino! addio Sesto! addio vallette verdi, chiesuole solitarie e casucce quete, che ci avete fatto dire tante volte:-Beata la pace!-Stanchi d'una baldoria carnovalesca, annoiati degli altri e di noi, tristi, umiliati, noi ci siamo levati molte volte innanzi l'alba e slanciati con desiderio smanioso alla campagna, come l'assetato alla fonte; e correndo di colle in colle, di valle in valle, e bevendo a lunghi sorsi deliziosi l'aura pregna di vita, abbiamo sentito sparire tristezze e rimorsi, rinascere, con l'appetito vigoroso e la gaiezza campagnola, la forza e l'ardor del lavoro! Addio contadini cortesi, vecchierelle allegre e ragazzotte col ?damo? negli occhi, che sedeste tante volte a tavola con noi, come vecchi amici; buona gente cordiale, che spalancavate gli occhi maravigliati, vedendoci cavar di tasca il portafoglio per notare le ingenue grazie del vostro celeste linguaggio; e addio voi pure, bambinelli scalzi, di cui ci chinavamo a raccogliere le parole come le note d'un canto sommesso; addio a tutti! Nessuno di noi vi ricorderà senza rimpiangervi! Dalle sponde del Tevere, rivolando col pensiero alle sponde del Po, ci soffermeremo sempre in riva all'Arno, per mandarvi un saluto, sempre!...

Qui l'amico si fermò, si turbò, e stette qualche minuto immobile, col capo basso, occupato da un pensiero triste. Poi alzò la fronte corrugando le ciglia, coll'aspetto di chi afferra il filo di una reminiscenza lontana, e riprese a bassa voce:

-....Piazza Castello pareva un mare di teste; c'era mezzo il popolo di Torino. Migliaia di voci cantavano l'inno di Goffredo Mameli. L'entusiasmo toccava il furore. Centomila visi erano rivolti alle finestre dove stavano i deputati della Toscana. La gente gridava loro cose, là sotto, che facevano venir freddo; tendeva le braccia come se essi avessero a gettarsi giù, e li volesse prendere. Si voleva vederli, e vederli ancora, e poi tornare a vederli.-Fuori!-si gridava con accento di preghiera;-vada qualcuno a pregare che si mostrino ancora una volta! Pregateli che ci parlino! Li vogliamo sentire ancora!-I loro nomi correvano di bocca in bocca; alcuni erano di famiglie antiche ed illustri, imparati già nelle storie, o intesi nelle scuole, nomi solenni, che si pronunziavano con riverenza; altri non saputi mai, ma pur cari per quel suono, per quell'impronta paesana che li faceva riconoscere alla prima. Si cercavano nella folla i pochi Toscani ch'eran venuti coi deputati, si correva intorno a loro con una curiosità infantile, si voleva sentire il loro accento decantato, si ripetevano le loro parole, si scambiavano i ?lei? e i ?chiel? con una dimestichezza che pareva antica.

Il nome di ?Fiorenssa?, come si diceva, questo nome al quale il popolo, benchè l'avesse sì poco familiare, era pure sempre usato ad unire l'immagine di qualcosa di gentile e di augusto, si ripeteva allora con amore; Firenze, già creduta tanto lontana, pareva che si fosse avvicinata ad un tratto, che fosse lì all'orizzonte, colle sue belle cupole e le sue belle torri; Dante! Michelangelo! Machiavelli! e gli altri grandi nomi rivenivano alla mente e sulle labbra, anche dei popolani, con un senso nuovo, quasi come nomi di gente viva, di cui que' deputati ci avessero portato un saluto o un ricordo. Firenze! Si vedevano con la mente, a questo nome, delle legioni di scultori, di pittori e d'architetti, che ci gridavano:-Viva!-da lontano, agitando scalpelli, tavolozze e corone. Oh come si conoscevano tutti senz'averli mai veduti! E come si sentiva la solennità di quell'istante, la fusione di quei due popoli e di quelle due storie! Era il Piemonte, il vecchio soldato, abbronzato dal sole e coperto di cicatrici, che deponeva un bacio sulla fronte bianca e splendida della madre delle arti; della quale dieci anni prima, a Curtatone, aveva potuto stringere appena, e di sfuggita, la mano insanguinata. Erano due grida sublimi, uno partito da Santa Croce e l'altro da Superga, che si mescevano in un solo:-Ecco il giorno!-Oh non c'erano freddezze allora! Non c'erano rancori!

-Freddezze?-riprese di lì a poco, quasi maravigliato d'essersi lasciato sfuggire quella parola;-rancori? Ma che!-continuò scrollando il capo e sorridendo,-ma chi lo crede? chi ne parla più? chi se ne ricorda ancora? Le famiglie piemontesi, forse, che si vedono, per le case e per le vie, mostrarsi l'una all'altra i loro bimbi di cinque anni, che parlano il più puro e argentino toscano che si sia inteso mai, ridendone come d'una cara sorpresa e parlandone con una compiacenza non scevra d'alterezza? O le loro donne di servizio, venute dalle falde delle Alpi, che quando c'è confusione in mercato dicono che ?non ci si raccapezzano?? O i rivenditori di giornali, nati sulle rive del Po, che rifanno il verso ai nuovi venuti, perchè non gridano ancora coll'accento paesano? Sogni! Interrogateli-?Signore!-vi risponderanno:-ella ritorna molto addietro; qui son nati i nostri figliuoli e i nostri fratelli più piccoli; in questa lingua e in questo accento ci chiamarono la prima volta e ci dissero le prime parole; qui ci abbiamo amici, fidanzati, parenti; in Santa Croce c'è il nostro Alfieri; che domande la ci fa? Questa è Italia, signore! La città dove siam nati ci è sacra; ma anche Firenze ci è cara, e l'amiamo?.

Questo diranno; e vi soggiungeranno anco molti che non partono col cuore lieto, che prevedono dei giorni e delle ore in cui si ricorderanno di Firenze con una tenerezza piena di malinconia e di desiderio, perchè qui si son stretti dei cuori, molti, e con nodi tenaci, come segue sovente fra chi s'è tenuto il broncio un bel pezzo. Rancori? Non è vero, è una calunnia per tutti: per chi parte e per chi resta; lo so di certo, io, lo vedo ogni giorno, lo sento ogni momento.

Come? Chi è che brontola laggiù? Chi è che alza le spalle? Avanti, se c'è ancora qualcuno da questa parte o dall'altra; spingiamoli in mezzo, a vedere se osano dirselo in viso; e che le donne e i ragazzi, che amano, perdonano e dimenticano, li costringano a levar le mani di tasca, e a tenderle di qua e di là, e gridino:-Stringete!-Animo, giù il cappello, ancora una volta, davanti a Santa Croce; un ultimo sguardo alla cupola, e un saluto intorno alle colline, e addio, e via, col cuore riconoscente e sereno. Per Dio! Chi ha ancora un po' d'amaro nell'anima non è un galantuomo....

Ed ora dò il mio ultimo saluto a Firenze anch'io.

Così dicendo, s'alzò, si voltò verso la città, e mise una voce di ammirazione. S'era fatto buio senza ch'egli se ne accorgesse, e tutta la valle era popolata di lumi. Provò quell'impressione stessa che si prova talvolta, girando per la campagna di notte, quando si guarda giù, senza pensarci, dall'orlo d'un'altura, e si vede la china, di cima in fondo, sorvolata da una moltitudine immensa di lucciole, che la fan parere tutta accesa. Così tutti quei lumi, a socchiudere appena gli occhi, si confondevano in un solo strato luminoso, che rendeva l'immagine d'un gran lago di fuoco. Dalle lunghissime file dei fanali della cinta, simili a ghirlande tese intorno alla città, altre file di lumi si stendevano dentro e fuori, diritte, curve, incrociate; altre interrotte qua e là, altre continue come un raggio di luce, altre nascoste quasi affatto dagli alberi, dietro a cui si vedeva uno splendore diffuso, come d'incendio; altre vicine, che parevano a pochi passi; altre lontane, visibili appena, or sì or no; e nel piano e sui colli, per tutto fiammelle, e gruppi di punti luminosi, e tremoli bagliori; un bellissimo cielo stellato, pareva, riflesso da una vasta acqua cheta.

-Ah!-esclamò il nostro amico dopo qualche istante di muta contemplazione agitando una mano verso Firenze;-....seduttrice!

Poi mise un sospiro e mormorò:

-Addio, Firenze!

E scese ch'era buio fitto.

ROMA.

L'ENTRATA DELL'ESERCITO ITALIANO IN ROMA.

Roma, 21 settembre 1870.

Le cose che ho da dire sono tante e tali che mi sarà impossibile di scriverle con ordine e chiaramente. è già gran cosa aver la voglia di scrivere, mentre per le vie di Roma risuonano ancora le grida del primo entusiasmo e della prima gioia. Tutto quello che ho veduto ieri mi sembra ancora un sogno; sono ancora stanco della commozione; non sono ancora ben certo di essere veramente qui, di aver visto quello che vidi, di aver sentito quello che sentii.

Vi dirò subito che l'accoglienza fatta da Roma all'esercito italiano è stata degna di Roma, degna della capitale d'Italia, degna d'una grande città sovranamente patriottica. Tutto ha superato non solo l'aspettazione, ma la immaginazione. Bisogna aver veduto per credere. Dubiterete della mia sincerità, lo prevedo; ma non voglio spender parole per prevenirvi, perché capisco che non posso aspirare ad esser creduto. Eppure sento che non vi darò che una pallida immagine della realtà! Son cose che non si possono ridire.

Ieri mattina alle quattro fummo svegliati a Monterotondo, io e i miei compagni, dal lontano rimbombo del cannone. Partimmo subito. Appena fummo in vista della città, a cinque o sei miglia, argomentammo dai nuvoli del fumo che le operazioni militari erano state dirette su vari punti. Così era infatti. Il 4.° corpo d'esercito operava contro la parte di cinta compresa tra porta San Lorenzo e porta Salara, la divisione Angioletti contro porta San Giovanni, la divisione Bixio contro porta, San Pancrazio. Il generale Mazè de la Roche, con la 12.a divisione del 4.° corpo, doveva impadronirsi di Porta Pia.

Via via che ci avviciniamo (a piedi s'intende) vediamo tutte le terrazze delle ville affollate di gente che guarda verso le mura. Presso la villa Casalini incontriamo i sei battaglioni bersaglieri della riserva che stanno aspettando l'ordine di avanzarci contro Porta Pia. Nessun corpo di fanteria aveva ancora assalito. L'artiglieria stava ancora bersagliando le porte e le mura per aprire le breccie. Non ricordo bene che ora fosse quando ci fu annunziato che una larga breccia era stata aperta vicino a Porta Pia, e che i cannoni dei pontifici appostati là erano stati smontati. Si parlava di qualcuno dei nostri artiglieri ferito. Ne interrogammo parecchi che tornavano dai siti avanzati, e tutti ci dissero che i pontifici davano saggio d'una maravigliosa imperizia nel tiro, che i varchi già erano aperti, che l'assalto della fanteria era imminente. Salimmo sulla terrazza d'una villa e vedemmo distintamente le mura sfracellate e la Porta Pia malconcia. Tutti i poderi vicini alle mura brulicavano di soldati; si vedevano in mezzo agli alberi lunghe colonne di artiglieria; lampeggiavano fucili tra 'l verde dei giardini; scintillavano lancie al di sopra dei muri; ufficiali di Stato maggiore e staffette correvano di carriera in tutte le direzioni.

è impossibile ch'io vi dia notizie particolari di quello che fecero le altre divisioni. Vi dirò della divisione Mazè de la Roche, che è quella ch'io seguii.

La strada che conduce a Porta Pia è fiancheggiata ai due lati dai muri di cinta dei poderi. Ci avanzammo verso la porta. La strada è dritta e la porta si vedeva benissimo a una grande lontananza; si vedevano le materasse legate al muro dai pontifici, e già per metà arse dai nostri fuochi; si vedevano le colonne della porta, le statue, i sacchi di terra ammonticchiati sulla barricata costrutta dinanzi; tutto si vedeva nettamente. Il fuoco dei cannoni pontifici, da quella parte, era già cessato: ma i soldati si preparavano a difendersi dalle mura. A poche centinaia di metri dalla barricata due grossi pezzi della nostra artiglieria traevano contro la porta e il muro. Il contegno di quegli artiglieri era ammirabile. Non si può dire con che tranquilla disinvoltura facessero le loro manovre, a così breve distanza dal nemico. Gli ufficiali erano tutti presenti. Il generale Mazè, col suo Stato maggiore, stava dietro i due cannoni. Ad ogni colpo si vedeva un pezzo del muro o della porta staccarsi e rovinare. Alcune granate, lanciate, parve, da un'altra porta, passarono non molto al disopra dello Stato maggiore. Gli zuavi tiravano fittissimo dalle mura del Castro Pretorio, e uno dei nostri reggimenti ne pativa molto danno.

Quando la Porta Pia fu affatto libera, e la breccia vicina aperta sino a terra, due colonne di fanteria furono lanciate all'assalto. Non vi posso dar particolari. Vidi passare il 40.° a passo di carica; vidi tutti i soldati, presso alla porta, gettarsi a terra in ginocchio, per aspettare il momento d'entrare. Udii un fuoco di moschetteria assai vivo; poi un lungo grido ?Savoia!? poi uno strepito confuso; poi una voce lontana che gridò:-Sono entrati!-Arrivarono allora a passi concitati i sei battaglioni dei bersaglieri della riserva; sopraggiunsero altre batterie di artiglieria; s'avanzarono altri reggimenti: vennero oltre, in mezzo alle colonne, le lettighe pei feriti. Corsi con gli altri verso la Porta. I soldati erano tutti accalcati intorno alla barricata; non si sentiva più rumore di colpi; le colonne a mano a mano entravano. Da una parte della strada si prestavano i primi soccorsi a due ufficiali di fanteria feriti: uno dei quali, seduto in terra, pallidissimo, si premeva una mano sul fianco: gli altri erano stati portati via. Ci fu detto che era morto valorosamente sulla breccia il maggiore dei bersaglieri Pagliari, comandante del 35.°. Vedemmo parecchi ufficiali dei bersaglieri con le mani fasciate. Sapemmo che il generale Angolino s'era slanciato innanzi dei primi con la sciabola nel pugno come un soldato. Da tutte le parti accorrevano emigrati gridando. Tutti si arrestavano un istante, a guardare il sangue sparso qua e là per la strada: sospiravano, e ripigliavan la corsa.

La Porta Pia era tutta sfracellata; la sola immagine enorme della Madonna, che le sorge dietro, era rimasta intatta; le statue a destra e a sinistra non avevano più testa; il suolo intorno era sparso di mucchi di terra, di materasse fumanti, di berretti di zuavi, d'armi, di travi, di sassi.

Per la breccia vicina entravano rapidamente i nostri reggimenti.

In quel momento uscì da Porta Pia tutto il Corpo diplomatico in grande uniforme, e mosse verso il quartier generale.

Entrammo in città. Le prime strade erano già piene di soldati. è impossibile esprimere la commozione che provammo in quel momento; vedevamo tutto in confuso, come dietro una nebbia. Alcune case arse la mattina fumavano, parecchi zuavi prigionieri passavano in mezzo alle file dei nostri, il popolo romano ci correva incontro. Salutammo, passando, il colonnello dei bersaglieri Pinelli; il popolo gli si serrò intorno gridando. A misura che procediamo nuove carrozze, con entro ministri ed altri personaggi di Stato, sopraggiungono. Il popolo ingrossa. Giungiamo in piazza di Termini: è piena di zuavi e di soldati indigeni che aspettano l'ordine di ritirarsi. Giungiamo in piazza del Quirinale. Arrivano di corsa i nostri reggimenti, i bersaglieri, la cavalleria. Le case si coprono di bandiere. Il popolo si getta fra i soldati gridando e plaudendo. Passano drappelli di cittadini con le armi tolte agli zuavi. Giungono i prigionieri pontifici. I sei battaglioni dei bersaglieri della riserva, preceduti dalla folla, si dirigono rapidamente, al suono della fanfara, verso piazza Colonna. Da tutte le finestre sporgono bandiere, s'agitano fazzoletti bianchi, s'odono grida ed applausi. Il popolo accompagna col canto la musica delle fanfare. Sui terrazzini s'affacciano famiglie intere che batton le mani. S'arriva a piazza di Trevi. I soldati prorompono in esclamazioni di maraviglia alla vista della grande roccia coronata di statue, donde precipita un fiume; gli ufficiali debbono sospingerli innanzi.

S'entra in piazza Colonna: un altro grido di maraviglia s'alza dalle file. La moltitudine si versa nella piazza da tutte le parti, centinaia di bandiere sventolano, l'entusiasm divampa: non v'è parola umana che valga ad esprimerlo. I soldati sono commossi fino a piangerne. Non vedo altro, non reggo alla piena di tanta gioia, mi spingo fuori della folla, incontro operai, donne del popolo, vecchi, ragazzi: tutti hanno la coccarda tricolore, tutti accorrono gridando:-I nostri soldati!-I nostri fratelli!

è commovente; è l'affetto compresso da tanti anni che prorompe tutto in un punto ora; è il grido della libertà di Roma che si sprigiona da centomila petti; è il primo giorno d'una nuova vita; è sublime.

E altre grida da lontano:-I nostri fratelli!

*

Il Campidoglio è ancora occupato dagli squadriglieri e dagli zuavi.

Una folla di popolo accorsa per invaderlo è stata ricevuta a fucilate. Parecchi feriti furono ricoverati nelle case; fra gli altri un giovanetto che marciò quindici giorni coi soldati. Il popolo è furente. Si corre a chiamare i bersaglieri. Due battaglioni arrivano sulla piazza, ai piedi della scala. I pontifici, al primo vederli, cessano di tirare; ma restano in atto di resistere. Una specie di barricata di materasse è stata costrutta in alto. L'assalirla di viva forza potrebbe costar molte vittime; s'indugia, forse gli zuavi s'arrenderanno, si dice che hanno paura dell'ira popolare. Tutte le strade che circondano il Campidoglio sono piene di gente armata che sventola bandiere tricolori e canta inni patriottici. Intanto ai bersaglieri che attendono sulla piazza son portati in gran copia vini, liquori, sigari, biscotti. La moltitudine va crescendo, cresce lo strepito. Qualcuno, forse un parlamentario, è salito sul Campidoglio. Parecchi ufficiali lo seguono. La folla, dal basso, guarda con grande ansietà. Ad un tratto cadono le materasse della barricata e appaiono le uniformi dei nostri ufficiali che agitano la sciabola e chiamano il popolo gridando: Il Campidoglio è libero.-La moltitudine getta un altissimo grido e si slancia con grande impeto su per la vasta scala, passa fra le due enormi statue di Castore e Polluce, circonda il cavallo di Marc'Aurelio, invade i corpi di guardia degli zuavi e rovescia, spezza e disperde tutto quanto vi trova di soldatesco. In pochi minuti tutto il Campidoglio è imbandierato. Il cavallo dell'imperatore romano è carico di popolani; l'imperatore tiene fra le mani una bandiera italiana. Un reggimento di fanteria occupa la piazza. è accolto con grida di entusiasmo. La banda suona la marcia reale, migliaia di voci l'accompagnano. All'improvviso tutte le faccie si alzano verso la torre. Il popolo e i soldati ne hanno sfondata la porta, son saliti sulla cima, hanno imbandierato il parapetto. Un pompiere sale per mezzo d'una scala sulle spalle della statua e lega una bandiera alla croce. Un fragoroso applauso e lunghissime grida risuonano nella piazza. La grande campana del Campidoglio fa sentire i suoi rintocchi solenni. Da tutte le parti di Roma accorre il popolo a ondate. Gli ufficiali che si trovano sul Campidoglio sono circondati e salutati con incredibile affetto. Si grida:-Viva Roma libera!-Viva i nostri soldati!-Le donne si mettono le coccarde tricolori sul petto. Da tutte le finestre dei palazzi vicini si agitano le mani e si sventolano i fazzoletti. Molti piangono. Il movimento della folla è vertiginoso; il rumore delle grida copre il suono della grande campana.

I conventi vicini, dove si crede che siansi rifugiati gli zuavi e gli squadriglieri, sono circondati dai bersaglieri e dalla fanteria.

*

Si ritorna in fretta verso il Corso. Tutte le strade sono percorse da grandi turbe di popolo che agitano armi e bandiere. I soldati pontifici che s'avventurano imprudentemente a passare per la città a due, a tre, o soli, sono circondati, disarmati e inseguiti. Giungiamo in piazza Colonna. In mezzo alla piazza vi sono circa trecento zuavi disarmati, seduti sugli zaini, col capo basso, abbattuti e tristi. Intorno stanno schierati tre battaglioni di bersaglieri. Il colonnello Pinelli e molti ufficiali guardano giù dalla loggia del palazzo che chiude il lato destro della piazza. Popolani, signori, signore, donne del popolo, vecchi, bambini, tutti fregiati di coccarde tricolori, si stringono intorno ai soldati, li pigliano per le mani, li abbracciano, li festeggiano.

Nel Corso non possono più passare le carrozze. I caffè di piazza Colonna sono tutti stipati di gente; ad ogni tavolino si vedono signore, cittadini e bersaglieri alla rinfusa. Una parte dei bersaglieri accompagna via gli zuavi in mezzo ai fischi del popolo; tutti gli altri sono lasciati in libertà. Allora il popolo si precipita in mezzo alle loro file. Ogni cittadino ne vuole uno, se lo piglia a braccetto e lo conduce con sè. Molti si lamentano che non ce n'è abbastanza, famiglie intere li circondano, se li disputano, li tirano di qua e di là, affollandoli di preghiere e d'istanze. I soldati prendono in collo i bambini vestiti da guardie nazionali. Le signore domandano in regalo le penne.

Numerosissime frotte di cittadini continuano a passare l'una dopo l'altra pel Corso con grandi bandiere; alcuni drappelli ne hanno quattro, sei, dieci; alcune bandiere sono alte più del primo piano delle case e vengono portate da due o tre persone. Tutta questa gente trae con sè soldati di fanteria e bersaglieri. Le canzoni popolari dei nostri reggimenti sono già diventate comuni: tutti cantano. Passano carrozze piene di cittadini che agitano in alto il cappello; i soldati, rispondono alzando il cheppì; le braccia si tendono dall'una parte e dall'altra, e le mani si stringono. Passano signore vestite dei tre colori della bandiera nazionale. Tutti gli ufficiali che passano in carrozza, a piedi, a gruppi, scompagnati, sono salutati con alte grida. Si festeggiano i medici, i soldati del treno, gli ufficiali dell'intendenza. Passano i generali e tutte le teste si scoprono.-Viva gli ufficiali italiani!-è il grido che risuona da un capo all'altro del Corso. In piazza San Carlo un maresciallo dei carabinieri a cavallo, scambiato per un generale, è ricevuto da una dimostrazione clamorosa, che gli cagiona un grande stupore. Da tutte le strade laterali al Corso continuamente affluisce popolo. Non v'è gruppo di cittadini che non abbia con sè un soldato, e ciascun gruppo osserva il suo da capo a piedi, gli toglie di mano le armi, gli parla tenendogli le mani sulle spalle, stringendogli le braccia, guardandolo negli occhi cogli occhi scintillanti di gioia.-Viva i nostri liberatori!-si grida. Davanti al caffè di Roma alcuni giovinetti gettano le braccia al collo di due robusti artiglieri e li coprono di baci disperati. A quella vista tutti gli altri intorno fanno lo stesso; cercano correndo altri soldati, li abbracciano, li soffocano a furia di baci.-Viva il nostro esercito nazionale!-gridano cento e cento voci insieme.-Viva i soldati italiani!-Viva la libertà!-E i soldati rispondono:-Viva Roma!-Viva la capitale d'Italia!-In molti, specialmente nei giovani, l'entusiasmo sembra delirio; non hanno più voce per gridare, si agitano, pestano i piedi, accennano le bandiere e fanno atto di benedire, di ringraziare, di stringersi qualche cosa sul cuore.

Non vidi mai, ve lo giuro, uno spettacolo simile; è impossibile immaginare nulla di più solenne e di più maraviglioso. Queste grandi piazze, queste fontane enormi, questi monumenti augusti, queste rovine, queste memorie, questa terra, questo nome di Roma, i bersaglieri, le bandiere tricolori, i prigionieri, il popolo, le grida, le musiche, quella secolare maestà, questa nuova gioia, questo ravvicinamento che ci fa la memoria di tempi, di casi, di trionfi antichissimi e nuovi, tutto questo insieme è qualche cosa che affascina, che percuote qui, in mezzo alla fronte, e pare che faccia vacillare la ragione; si direbbe che è un sogno; non si può quasi credere agli occhi; è una felicità che soverchia le forze del cuore.-Roma!-si esclama.-Siamo a Roma? Quando ci siam venuti? Come? Che è accaduto?-Il ricordo di quello che è accaduto è già confuso come se fosse d'un tempo remoto. è una commozione che opprime. Ad ogni strada, ad ogni piazza in cui s'entri, l'occhio gira intorno maravigliato, e il sangue dà un tuffo. Avanti, di maraviglia in maraviglia, di palpito in palpito, via via che si procede, la fronte si solleva, il cuore si dilata, e sente più gagliardamente la vita. Ecco la piazza del Popolo. Si corre all'obelisco, ci si volta indietro, si vedono davanti le tre grandi strade di Roma, si vede a sinistra il Pincio delizioso, laggiù in fondo la cima del Campidoglio, tutto intorno prodigiose bellezze di natura e d'arte, antiche, nuove, auguste, gaie, gigantesche, gentili; la mente sopraffatta si turba, ci prende un tremito, e bisogna sedersi ai piedi dell'obelisco, pigliarsi la testa, fra le mani e aspettare che la lena ritorni.

Intanto imbrunisce. Il Corso s'è illuminato come per incanto. Il Corso, illuminato, ha veramente un aspetto fantastico. Candellieri, doppieri, lumi d'ogni forma e d'ogni grandezza risplendono sulle ringhiere dei terrazzini e sui davanzali delle finestre. A percorrere la strada in carrozza non si vede più terra, è tutto un fiume, a cui la strada non basta, e che straripa nei caffè, nelle piazze, nelle botteghe, negli atrii, nei vicoli. Questa immensa folla è rischiarata da migliaia di fiaccole. Drappelli di signore a due a due passano tenendo in mano dei cerini accesi, che rischiarano il loro petto coperto di coccarde, di sciarpe, di nastri tricolori. Sopra questo fiume di gente nuotano, sbattuti di qua e di là, cappelli di bersaglieri, cheppì, berretti, canne di fucile a centinaia. Le signore gettano giù dalle finestre fiori e confetti ai gruppi dei soldati che tendono le mani. Da un capo all'altro della lunghissima strada, a ogni passo, si sentono dieci voci che cantano insieme. I soldati non sono più condotti, sono travolti. I cittadini, non più paghi di tenerli a braccetto, camminano tenendo loro un braccio intorno al collo. Passano donne con un pennacchio di bersagliere nelle treccie. Famiglie ferme sui marciapiedi arrestano i soldati per mettere nelle loro braccia i bambini. Il gridìo nel Corso è oramai giunto a segno che chi è stanco dalle fatiche della mattina non ci può più reggere.

Salgo in una carrozza, e mi lascio condurre al Colosseo. Attraverso la stupenda piazza della Colonna Traiana, piena di gente anch'essa e illuminata; passo per parecchie piccole strade; dappertutto lumi. Guardo nei caffè, nelle osterie: dappertutto soldati e popolani insieme, dappertutto grida di viva Roma e viva il nostro esercito, dappertutto canti, amplessi, grida di gioia, bandiere. Eccoci nel Campo Vaccino. è notte fitta, e il classico lume di luna sul Colosseo non risplende ancora. Non importa; il cielo è stellato, e vedrò del momento sublime almeno i contorni. Da tanti anni ardevo di vederlo! Il cuore mi batte a precipizio. Ormai sono in un luogo deserto, non sento più una voce, non un passo; tutto è queto ed oscuro. Eccoci, mi dice il cocchiere. Io balzo in piedi, guardo, veggo un'immensa macchia nera sul cielo, e tanto è l'impeto e la dolcezza con cui i ricordi e le immagini della memoranda giornata mi assalgono tutti in un punto, che non s'arresta il mio sguardo sui meravigliosi contorni, nè vi si può arrestare il pensiero. Sguardo e pensiero si levano più in alto, e dal profondo del cuore, col più ardente palpito che possa destare in un cuore umano la gratitudine, saluto e ringrazio i padri e i fratelli che non son più, quelli che languirono negli esigli e nelle carceri, e quelli che spirarono sui patiboli e sui campi di battaglia per darci questa grande patria, la quale, dopo cinquant'anni di dolore e di sangue, oggi s'integra e s'incorona al cospetto del mondo. O benedetti morti che ci avete preparato questo santo giorno! O poveri morti che non l'avete potuto vedere con noi! Siate amati, onorati, benedetti in eterno!

LA CUPOLA DI SAN PIETRO.

Per quanto si sia parlato, e scritto della basilica di San Pietro, qualcosa da dire resta sempre; e poi, questa volta, sotto la cupola di San Pietro c'è una grande novità: i bersaglieri, dei quali non è fatto cenno, credo, nè dalle guide, nè dai libri archeologici, nè dalle opere artistiche; e spero che la mia penna d'oca, con l'aiuto delle loro penne di cappone, riuscirà se non altro a rallegrarvi.

Andai là con un mio amico ch'era già stato a Roma. Passando sul ponte Sant'Angelo, incontrammo un ufficiale che ci consigliò di tornar indietro.

-Adesso ci troverete una processione di soldati,-disse;-ne sono piene tutte le scale, pare una caserma, bisogna tornarci più tardi.

Più tardi? Con questa po' di febbre che ho addosso? Dopo aver veduto quella benedetta cupola per cinque giorni a otto miglia di lontananza, grande, netta e spiccata, che mi pareva a due passi, e mi faceva soffrire le pene di Tantalo? è impossibile; fin che non ci sono sopra, mi par di sentirmela sul petto. Andiamo a vedere questa maraviglia. A San Pietro!

La carrozza era già di là dal ponte Sant'Angelo, quando il mio compagno mi consigliò di chiuder gli occhi e di non aprirli prima che me lo dicesse: li chiusi.

A un tratto la carrozza si fermò e l'amico disse:-Guarda.

Guardo: siamo in mezzo alla piazza. Ecco le colonne, le fontane, la gradinata, la cupola, ogni cosa come si vede nei quadri: nulla di nuovo, nessuna maraviglia.

-Dunque?-domanda l'amico,-non ti scuoti? che impressione ti fa? non ti par bello, grande, sublime?

Io son mortificato, non trovo parola. Questa è la famosa basilica? Questa la cupola che si vede di lontano quaranta miglia? Questo il gran colosso di San Pietro?

-Dunque?

-Dunque.... senti, amico, vuoi ch'io ti dica la verità?

-Quale?

-Mi par piccolo.

-Che cosa?

-Tutto: la piazza, la chiesa, la facciata, la cupola, tutto quello che vedo.

L'amico diede in uno scroscio di risa.

-Sarà ridicolo; ma è vero. Mi par piccolo, mi par piccolo, mi par piccolo. Son disilluso.

-Guarda quell'uomo.

-Quale?

-Quello seduto ai piedi d'una delle colonne di mezzo della facciata.

Guardo l'uomo, misuro con l'occhio tutta l'altezza della colonna, misuro la larghezza, poi l'uomo di nuovo, confronto, riguardo ed esclamo:

-è immenso!

-Ah! qui ti volevo! Bisogna confrontare, caro mio. Come ti puoi accorgere che qualcosa è gigantesco dove tutto è gigantesco? A prima giunta, tutti guardano in su, e tutti dicono come te. Scendiamo.

Si scende di carrozza, si sale la gradinata: non finisce mai. Si guardano le colonne della facciata: ingigantiscono a ogni passo. V'arriviamo davanti: sono larghe come case. Guardiamo in su: sono alte come campanili. Ci voltiamo indietro: quanta strada s'è fatta! Le fontane, pur ora così grandi, son diventate piccine che non paiono più quelle. Un soldato vicino a noi esprime benissimo questo stesso effetto; guarda la facciata e dice:-?Gonfia?.

Entriamo. Guardo....-Amico, questa volta te lo dico sul serio: sono deluso.

-Aspetta. Vedi quella colomba in bassorilievo, di marmo bianco, qui nell'angolo?

-Vedo.

-A che altezza ti par che giunga della tua persona?

-Al collo.

-Vediamo.

Si va innanzi.... Diavolo, non ci siamo ancora? Pareva a due passi. Eccoci. Oh questa è curiosa! Stendo il braccio in alto, mi alzo sulle punte dei piedi, e non ci arrivo.

-Guarda le lettere di quell'iscrizione lassù; quanto ti paiono alte?

-Quattro palmi.

-Sono più alte di te. Guarda quelle finte colonne; come ti paiono larghe?

-Un braccio.

-Tre metri.

Comincio a capire. In mezzo alla chiesa si vede un gruppo di ragazzi intorno a una cosa che sembra una statua. Andiamo innanzi, innanzi, innanzi: oh cospetto! i ragazzi sono soldati d'artiglieria grandi e grossi come Ciclopi; la cosa è la statua di San Pietro; i soldati le baciano il piede; un pretino poco distante guarda e sorride con un'aria di stupore e di compiacenza; pare che dica:-Son cristiane queste bestie feroci! Meno male!

C'è una lunga fila di soldati in ginocchio intorno all'altar maggiore. Altri, negli angoli lontani, stanno ammirando le statue, e per persuadersi che sono di marmo metton loro le mani sulle spalle, sulle braccia, sulle ginocchia, come fanno i ciechi per riconoscere. Un gruppo di bersaglieri è estatico davanti a San Longino. Parlano tra di loro. Mi avvicino e colgo la sentenza finale d'uno di essi, che mi ha l'aria di un monferrino: ?A j'è nen a dije; a l'è un bel travaj? (non c'è che dire; è un bel lavoro).

Siamo sotto la cupola. Su la testa. Ah! qui l'effetto è veramente prodigioso! è bello il vedere il mutamento che si fa in tutti i visi appena si voltano in su. Molti, appena guardato, chinano la testa e chiudono gli occhi, come se avessero intraveduto l'abisso. In altri il viso e l'occhio s'illuminano come a una visione di cielo. è una maraviglia che ha dell'estasi. è il solo punto della chiesa in cui collo sguardo si sollevi al cielo il pensiero. Nelle altre parti è enormità che stupisce e splendore che abbaglia, non grandezza che ispira; ci si sente il teatro; si pensa più alle fatiche e ai milioni che vi si profusero, che all'Idea cui furono consacrati; più ai pittori e agli scultori, che agli angeli e ai santi. L'anima è così tenacemente legata alla terra dalle maraviglie dell'arte, che a sprigionarla e a levarla in alto occorre assai maggior forza e più difficile lotta che non a farla uscir vittoriosa dalle tentazioni esterne della vita, contro cui la chiesa dovrebbe servir di rifugio.

Si va innanzi, indietro, a destra, a sinistra, e man mano che si procede la testa si fa pesante e la vista s'intorbida. A ogni passo cento nuove cose, l'una più straordinaria e mirabile dell'altra, s'affacciano confusamente allo sguardo, vicine, fitte, ammontate. L'attenzione non basta a tutte insieme, sopra una sola non può fissarsi, che le altre la tirano, e così tremola e si stanca senza nulla abbracciare. Colonne enormi, statue colossali, bassorilievi, dipinti, mosaici, ori, ricchezze e bellezze d'ogni forma e d'ogni natura: vi si passa accanto senza neanco guardare; si vedono e si dimenticano le une nelle altre.

Si vede in fondo alla chiesa qualcosa di nero che brulica intorno alla porta: è una compagnia di soldati che entra. Quei colossi di angeli che reggono la pila dell'acqua benedetta sembrano due giocattoli da ragazzi. In vari punti ci sono dei soldati che si chinano a guardare sul pavimento: guardano le indicazioni della lunghezza delle più grandi basiliche del mondo. Quale arriva a metà, quale a due terzi, quale a un terzo: chiesuole. ?Mamma mia!? esclamano i soldati napolitani. Quante moltiplicazioni dovranno fare, tornati ai loro villaggi, per dare un'idea di San Pietro col confronto della chiesa parrocchiale! Alcuni notano sul taccuino le dimensioni. Altri fanno il conto di quanti soldati ci starebbero.-Ci stanno tutti i soldati del 4.° corpo d'esercito?-Sì.... e forse anche tutte le maledizioni che mandarono al servizio delle sussistenze.

Ecco la porta per salire alla cupola. Coraggio e su, chè sarà una sudata memorabile. Si sale per una scala a chiocciola; gli scalini sono larghissimi e appena rilevati; si va su a grandi giri, agevolmente, senza avvertir la salita. Il muro è coperto di lastre di marmo dove son segnati i nomi di tutti i principi del mondo che salirono alla cupola. C'è l'iscrizione di Ferdinando II di Napoli. Sotto, appoggiate al muro, ci stanno otto daghe da bersagliere. Più su, a ogni passo, cappelli coi pennacchi, cheppì, sciabole di cavalleria, cinturini, giberne. Sopra la testa e sotto i piedi, un fracasso da stordire. Sono squadre intiere di soldati che scendono, salgono, s'incontrano, si salutano, si esprimono l'un l'altro lo stupore e l'allegria. Già si leggono pei muri le loro iscrizioni, poichè il soldato, per dove passa, lascia sempre traccia di sè. Sotto quella del Borbone che dice: ?Re del regno delle due Sicilie, salì nella cupola ed entrò nella palla?, si legge: ?Tale dei tali, allora caporale del genio, ha avuto l'onore di salutarlo a Gaeta?.

Oh, ecco una finestra, guardiamo giù. E non si canzona! Siamo già oltre il tetto dei più alti palazzi. Si ripiglia la salita, si cammina altri dieci minuti, ecco una porta: si esce al cielo aperto. Eccoci sul tetto della chiesa: è una piazza d'armi. Si vede da una parte un edifizio rotondo, alto quanto una chiesa ordinaria: non è altro che una delle cupolette minori che fanno da stato maggiore alla principale. è grande e stupenda, ma nessuno la guarda; non s'ha tempo per guardare tutte le minuzie. Si corre al parapetto, si guarda nella piazza: è un formicaio. Si guardano le statue che sorgono in fila sul sommo della facciata: che moli! Piedi che non istanno sul tavolino dove scrivete; pieghe dei panni in cui si può nascondere un uomo; dita che paiono clave. V'è una chiave di San Pietro che a prima giunta si piglia per un'ancora di bastimento. I soldati scorrazzano da tutte le parti, chiamandosi e salutandosi dalla piazza al tetto, dal tetto alla cupola, ed esprimendosi la maraviglia con quel ridere allegro e quelle esclamazioni scherzose:-Che bagattella!-E chi vuol andare di qua, chi di là; si tirano, si spingono, si aggruppano, si sparpagliano, correndo, ridendo e chiacchierando, come i ragazzi nel cortile di un collegio.-Bisogna farsi coraggio,-dice uno,-e salire, perchè se non si va in paradiso questa volta, non ci si va più.-Ma questa cupola par piccola,-ripeto al mio amico. E lui:-guarda in cima.-L'ultimo terrazzino sotto la palla è pieno di soldati; o come mai si vedono così piccoli se son così vicini?

Su, alla cupola. Sali e gira e rigira, ecco un uscio che dà sur una galleria; la galleria dà nell'interno della chiesa; mi affaccio; ma mi tiro subito indietro, preso dalla vertigine.-Guarda la sala del Concilio, laggiù in quella nave della chiesa,-mi dice il compagno. Guardo.-Ma come! là dentro stavano tutti quei vescovi? Ma se è grande come una scatola da tabacco!-Che cosa paiono gli uomini laggiù? Mi ricordo il detto del Guerrazzi: ?quello che sono, insetti?. Intorno a quell'altarino di mezzo ce n'è uno sciame: sembrano una macchia nera che si muova. Guardo dietro di me, nel muro, e m'accorgo che quelle testine d'angiolo a mosaico, ch'io vedeva di giù, starebbero bene sopra un paio di spalle di titano.

Si risale. Scale lunghe e diritte di cui si vede appena la sommità, scale a chiocciola dove per salire bisogna afferrarsi a una fune, scale di legno a zig zag, scale comprese fra due pareti curve dove bisogna camminare rotolandosi sulla parete più bassa; e da capo scale dritte, e da capo scale a chiocciola, e avanti, sudando, ansando e soffiando: ecco finalmente un raggio di luce, una porta, eccoci sulla sommità, ecco tutta Roma: oh che aria viva e leggiera!

La prima esclamazione che mi colpisce, arrivato là, è d'un artigliere lombardo.-?Madona!?-esclama giungendo le mani-?alter ch'el domm de Milan!?

Si guarda giù, sul tetto della chiesa, dove si era poc'anzi: si vede una processione di formiche. La gente che passeggia per la piazza si discerne appena; le due grandi fontane sembrano due pennacchietti bianchi agitati; le cupole minori della basilica, campanelle di quelle piccine, che si mettono sulle statuette dei santi. Tutta la città si abbraccia con uno sguardo. Subito dànno nell'occhio le mura del Colosseo e delle Terme, nere e gigantesche. Le statue in cima alle colonne, le punte degli obelischi, le sponde curve del Tevere, il Pincio, la villa Borghese, il Quirinale, San Giovanni Laterano, il Gianicolo, che sembra una collinetta di giardino, tutto si vede distintamente. Il giardino del Vaticano pare un'aiuola; il Vaticano, un edifizio comune, coi cortiletti: è tutto chiuso e deserto. Ecco Monte Mario. Ecco laggiù la campagna romana, nuda e sinistra; di qui debbono aver veduto il passaggio delle divisioni del Cadorna, compagnia per compagnia, cannone per cannone. Ecco Monterotondo, Tivoli, Frascati, Albano, e più a destra, lontano, quella sottile striscia luminosa, il mare. Roma! Roma! Benedetto nome che non s'è mai stanchi di dirlo; c'è qualche segreto in questo suono: Roma! Pare che sempre ce lo ripeta l'eco nell'orecchio: Roma! Eccola qui tutta....

Un soldato accanto a me guarda anch'egli Roma con aria pensierosa; pare che voglia dire qualche cosa, sorride, alza una mano, la batte sul parapetto:-?Finalment?....

Sentiamo quel che vien dopo.

-?Ghe semm!?

Senti come l'ha detto con gusto! E tutti gli altri soldati, sul punto di scendere, agitando una mano:-?Addio, addio Roma!?

E giù per le lunghe scale tortuose echeggia il suono dei passi precipitosi e delle voci allegre.

PRETI E FRATI.

Nelle caserme pontificie si trovarono molte copie d'un inno di guerra, dettato in francese, che par che dovessero cantare gli zuavi andando a combattere. Ha molti punti di somiglianza colla ?Marsigliese?. Ha un ritornello che comincia: ?Catholiques, debout!? Ha una strofa che arieggia quella dell'inno francese: ?Entendez-vous dans ces campagnes?, con la differenza che ai ?féroces soldats? sono sostituiti ?les barbares?. Ha un verso che dice: ?Viendront-ils nous prendre (ci dev'essere un verbo più feroce, ma non lo ricordo) nos églises, nos prêtres?? E il verso dopo: ?Non, non, on n'y touchera pas?. E altre amenità poetiche su quest'andare.

Ma dal verso in cui è detto che gli Italiani vanno a Roma per far man bassa sulle chiese e sui preti, si capisce che dovette esser quella la finzione di cui si servirono principalmente i fautori del governo papale per suscitare e tener vivo il fanatismo nei soldati, per destar nel popolo l'avversione al governo italiano, e per alimentare la diffidenza di quei molti che, pure essendo cattolici in buona fede, manifestavano o lasciavano trapelare sentimenti italiani.

Questo fatto spiegherebbe pure l'astensione d'una parte del popolo dalle dimostrazioni entusiastiche così nella città di Roma come nei villaggi della provincia.

A Monterotondo, discorrendo con un cittadino dei più noti, e in voce di liberale, gli domandammo come fosse contento del nuovo stato di cose:

-Per me sono contentissimo;-rispose, e lo diceva sinceramente:-tutto va bene, non si potrebbe desiderare di meglio.-E poi a bassa voce:-Hanno rispettato le chiese, hanno lasciato stare i preti; messe, vespri, funzioni, ogni cosa come prima.

-Oh curiosa! Ma credeva che si venisse qui per far man bassa su tutto questo, lei?

-Io?... nemmen per sogno.

Certo che lo credeva, e con lui chi sa quanti, che all'entrare dei nostri soldati si saranno chiusi in casa e fatti dar del codino. Ma ora che si son disingannati e rassicurati, non credo che saranno meno sinceramente italiani degli altri.

Non ricordo in che villaggio, una donna del popolo fermò il primo ufficiale che vide, e gli disse con voce affannosa e supplichevole:-è una buona persona il nostro curato, glie l'assicuro; è un galantuomo; non gli dispiace mica che vengano i soldati italiani; non gli facciano nessun male, lo raccomandi lei ai soldati, ci faccia questa carità....

Quella donna credeva fermamente che il ?mandato? dell'esercito italiano fosse di far la festa ai preti, come diceva don Abbondio. Ora lamentatevi, se vi pare, ch'essa non abbia messo fuori dalla finestra la bandiera tricolore.

Passava un drappello di seminaristi, per una via di Nepi, poco dopo che v'erano passati i soldati. Un popolano, accennandoli, disse in tuono burlesco:-Ora.... quelli là.... è finita....-E mi guardava.

-Perchè finita?-gli domandai.

-A questi lumi di luna....

-Ma che lumi di luna! I seminari e i seminaristi seguiterete ad averli; ce li abbiamo anche noi, e ce li avremo sempre.

Fece un atto di stupore, e poi domandò:-In Italia? Ce li avete anche voi in Italia?

-Anche noi in Italia.

-E passeggiano per le strade?

-Passeggiano per le strade.

-E nessuno gli dice nulla?

-E che volete che gli dicano?

C'era da perdere la pazienza; mi ripugnava quasi di credere a tanta ignoranza.

In una via remota di Roma, poco dopo l'entrata dell'esercito, si vide un vecchietto che, all'aria, doveva aver avuto un tale spago delle cannonate da perdere il lume della ragione. Alla paura delle cannonate gli era poi sottentrata la paura delle dimostrazioni. Passavano alcuni giovani cantando e sventolando bandiere. Non avendo più tempo di fuggire, credette di dover far l'italiano per non essere accoppato. Cominciò con sforzarsi a sorridere, e poi, raccolto tutto il suo coraggio, gridò con una voce da moribondo:-Accidenti ai preti!

Le bricconate fatte per viltà sono più rivoltanti di quelle fatte per nequizia. Uno dei giovani del drappello lesse nel viso al vecchio e gli disse con piglio severo:-Per essere Italiano non c'è mica bisogno di mandare accidenti ai preti, sapete!

Il vecchio rimase attonito.

-Non ce n'è proprio bisogno,-soggiunse il giovane allontanandosi e continuando a guardarlo. Il povero Italiano fallito non profferì più parola. Anche a lui, certo, era stato dato a credere il ?viendront-ils? degli zuavi.

Un oste, all'apparir dei soldati, s'affrettava a nascondere certi palloncini da luminaria su cui era scritto: ?W. Pio IX?. Un ufficiale lo sorprese, e gli disse:

-Lasciate quella roba dove si trova.

-Ma io....

-Lasciatela.

-Ma io non son mica per il papa; io son per lor signori.

-Ma per essere per noi, non c'è mica bisogno che rinneghiate il papa.

-Ma questa roba....

-Ma questa roba vi potrà ancora servire, e tira poco, speriamo, perchè le cose s'aggiusteranno.

-Lei dice bene.

-E voi facevate male.

Del resto, i preti mostrarono di non aver le paure che s'adoperavano a metter negli altri. Mentre nelle vie dei villaggi la buona gente tremava per la loro vita, essi, dalla finestra, assistevano tranquillamente al passaggio dei reggimenti, e molti non abborrivano dall'onorare d'un cortese saluto gli ufficiali a cavallo.

Un solo frate mostrò d'aver paura dei soldati, e fu vicino a Civita. Veniva innanzi con un somarello verso un battaglione di bersaglieri, pallido e tremante, e giunto a pochi passi dai primi soldati, si fermò e giunse le mani in atto di chieder grazia.-?Fa nen 'l far?eur?-gli disse un caporale. Gli altri gli domandarono notizie del Santo Padre. Qualcuno gli offrì del pane. Rassicuratosi, pareva matto dalla contentezza.

E non mancarono i preti che accolsero festevolmente i soldati. A Baccano un prete ed un frate stettero a veder sfilare sei battaglioni di bersaglieri sulla porta del convento, sereni e ridenti ch'era un piacere a vederli. Tutti i soldati, passando, dicevano qualche cosa all'uno o all'altro.

-Si va a Roma, reverendo.

-Dio v'accompagni!

-Senti! è dei nostri!

Il prete si mise una mano sul cuore.

-Viva! viva!-si gridò dalle file. E il frate e il prete ringraziarono.

Non intesi mai, nè altri può affermare d'aver mai inteso un soldato dire una parola sconveniente ad un prete. Scherzi, sì; ma urbanissimi, e condonabili sempre alla gaiezza soldatesca, Se l'?Unità Cattolica? osservasse che è inurbanità il dirigere la parola a chi non si conosce, le si potrebbe rispondere che nessuno obbligava i preti a mettersi alle finestre o a piantarsi sull'uscio della casa parrocchiale quando i reggimenti passavano. Se vi stavano, vuol dire che ci si divertivano. Non so se ci sarebbero stati quando fossero passati gli zuavi.

Nei primi due giorni non si videro in Roma nè preti nè frati, o soltanto pochissimi. Ma non si può dire che stessero nascosti per timore: qual ragione avrebbero avuto di temere i nostri soldati a Roma più che nella provincia? Stavan chiusi, si capisce, per non aver a prendere parte, neanco come spettatori, alle dimostrazioni del popolo. Tuttavia, ripeto, alcuni se ne videro anche il primo giorno, e passavano in mezzo alle bandiere e alle grida, sicurissimamente, come in casa propria, senza esser nemmeno guardati. E sì che le vie di Roma, stando a quello che scrisse don Margotti, eran piene di ?facinorosi?, di ?tigri assetate di sangue? e di ?donne di mala vita?, tutta gente, come diceva l'oste milanese della ?Luna piena?, latina di bocca e latina di mano.

La mattina dopo il 20, venendo dal Campo Vaccino al Campidoglio, la prima cosa che vedo, in cima a una delle grandi scale che dànno sulla piazza, è un gruppo di bersaglieri e di frati che se la discorrono fraternamente, seduti sugli scalini. I bersaglieri mangiavano; due o tre frati rivolgevano tra le mani una gamella, guardandola di sopra e di sotto; altri tenevano in mano un pane di munizione; altri osservavano con molta curiosità i cappelli piumati appesi al muro. Ci fosse stato un fotografo! Parevano amici vecchi. A un bersagliere che scendeva domandai:-Che cosa dicono i frati?-?So' chiù etaliani de noautri?,-mi rispose ridendo.

La sera, per le strade, se ne videro molti. Ce n'era di tutti i colori: bianchi, neri, bigi, cacao. Alcuni erano accompagnati da soldati. La gente guardava e rideva. Era infatti una mescolanza così nuova e strana, che pareva di sognare. E il modo con cui andavano assieme! Come fosse la cosa più naturale del mondo, come fossero stati insieme sempre. Discorrevano di politica.

Passando in certe strade appartate, i soldati vedevano qua e là sparire delle tonache e chiudersi degli usci. Da certe finestre spuntavano visi di reverendi rannuvolati, guardavano intorno come per consultare il tempo, e, sentito grida o musiche lontane, richiudevano le imposte. Altri uscivano in fretta da una porticina, si arrestavano a un tratto, come le lucertole, a spiare in giro, e poi via rasente il muro a lunghi passi. Per certe strade quiete e deserte pareva di sentire dei fruscii misteriosi, come di notte per gli anditi delle chiese e delle sagrestie.

Qualche prete, attraversando in fretta via del Corso e vedendo di sfuggita qualche nuova uniforme, si fermava in un canto, fuori della folla, per vedere che bestia fosse. Ne vidi due che sbirciavano da lontano due carabinieri in tenuta di parata. Li guardarono dalla testa ai piedi, dai piedi alla testa, e poi si consultarono l'un l'altro tacitamente, stringendo le labbra coll'aria di dire:-Che roba è?

Curiosità n'avevano, certo; ma non guardavano mai diritto. Passando accanto ai soldati, lanciavano occhiate di traverso, rasente il cappello, al di sopra della spalla, tra le dita della mano, o facevano scorrere due dita intorno al collo come per allargarsi il collare, tanto per aver agio di voltare la faccia senza parer di guardare.

Lasciamo gli scherzi; debbono aver detto in cuor loro:-Qual differenza dai nostri zuavi!

Chi avesse visto in viso quei due cardinali, di cui non ricordo il nome, che passarono in carrozza dinanzi ai bersaglieri, presso Castel Sant'Angelo, poco dopo ch'era stato ordinato alle truppe di render loro gli onori come ai principi del sangue; chi avesse visto il sorriso che fecero quando si videro presentare le armi, lo sguardo benigno e gentile che girarono sui soldati, e l'atto di ringraziamento con cui accompagnarono lo sguardo, e la serena e lieta dignità con cui si ricomposero dopo quell'atto; chi li avesse visti avrebbe giurato che un sorriso, uno sguardo, un atto così quei due cardinali non lo avevano mai fatto ai loro bene amati campioni.

E cardinali, e preti, e frati se v'era fra loro chi credesse a quello che le femminucce di Civita e di Nepi credevano, e quanti Romani cattolici trepidavano per le chiese e pei sacerdoti, debbono essersi tutti solennemente e irrevocabilmente ricreduti. Sentivano dire che i soldati italiani erano barbari, e non li hanno visti torcere un capello a un reverendo; ch'erano empi, e li hanno veduti affollarsi nelle chiese a baciare i piedi dei santi; ch'erano vandali, e li hanno visti pagare ogni cosa a soldi sonanti, e regalare le pagnotte ai frati; ch'erano licenziosi e insolenti, e hanno sentito dire dai popolani:-Che rarità di soldati son questi che non dicon nulla alle donne!-Volere, o non volere, un grande edifizio di menzogne è caduto e, per Iddio, si potrà raccoglierne i ruderi, ma non si rifabbrica più.

Quante conversioni politiche debbono aver fatto i nostri soldati!

Quanto poi ai preti e ai frati, io avrei voluto leggere nel loro cuore la sera del 20 settembre. Se è vero che la maravigliosa dimostrazione di Roma, tanto superiore a ogni previsione e a ogni speranza, abbia più che commosso, sopraffatto e sbalordito nella corte pontificia i più fieri e ostinati nemici d'Italia, che non avrà potuto di più sul cuore dei molti in cui la convinzione era fiacca e la nimicizia determinata solamente dall'interesse? Quelle poche __fibre italiane__, che il conte di Cavour non voleva credere morte neanche nel cuore del Papa, debbono essersi scosse nel loro cuore la sera di quel giorno. Le grida e i canti del popolo debbono essere risonati nelle celle silenziose dei monasteri, come un avvertimento, come un consiglio, come un rimprovero. Molti debbono aver invidiato dal più profondo dell'anima quella gioia; debbono aver rimpianto di essersi ridotti in condizione da non poterla godere; alcuni, forse, tendendo l'orecchio alle musiche lontane, debbono aver provato un sentimento di tenerezza mesta ed amara, debbono essersi ricordati di aver una patria, debbono aver sentito che l'amavano, debbono aver profferito in segreto il suo nome, debbono averla invocata, debbono aver domandato con sincere lacrime a Dio che ispirasse nel cuore del pontefice il bisogno di riconciliarsi con lei, di riconoscerla, di benedirla, di troncare con una parola generosa la guerra insensata che in mezzo a tanta gioia e a tanto affetto li condannava alla solitudine e all'abbandono come rinnegati o stranieri.

LE TERME DI CARACALLA.

-Andiamo alle terme di Caracalla.

-Andiamo; si può passare vicino al Circo Massimo.

-E attraversare il Campo Scellerato.

-E veder l'arco di Giano.

-E la Cloaca Massima.

Niente di meno! Ponete d'essere due amici a far questo dialogo, e ditemi se non c'è da sentirsi gonfiare, e mettersi a parlar latino, anche a rischio di far fremere di sdegno grammaticale il sacro suolo e le venerande rovine.

Per andare alle terme di Caracalla si passò accanto a tutti quei monumenti; ma in fretta, e senza molto badarvi, che tanto c'era stato detto e ridetto delle terme, da toglierci pel momento ogni altra curiosità e ogni altro pensiero.

-Vi faranno più impressione del Colosseo,-ci avevano detto molti; ma noi non lo credevamo possibile, e perchè il Colosseo ce n'aveva fatto una grande, e perchè l'idea, prosaica che in fin dei conti le terme erano uno ?stabilimento di bagni?, come si diceva scherzando, ci teneva in freno l'immaginazione.

Per istrada, si celiava confrontando la prima austerità dei costumi romani, quand'era proibito al genero di fare il bagno in presenza del suocero, con la licenza degli ultimi tempi, allorchè si vedevano sorgere dall'acqua alla rinfusa teste di patrizi e di matrone, e i consoli spruzzare i senatori, e l'imperatore tuffarsi nella ?natatoria? in mezzo ai popolani, e le schiave aspettar le padrone nelle celle per ricomporre sui capi stillanti i ?crines suppositi?, e ungere le membra d'unguento.

-Le terme, signori,-dice a un tratto il cocchiere.

Una gran muraglia nera e una gran porta son tutto quello che mi ricordo della parte esterna. Il primo momento in cui ci si trova davanti a qualche cosa, di straordinario e di grande non resta mai distinto nella memoria. La porta s'apre, entriamo in una specie di vestibolo, e udiamo una voce che dice:-Qui v'erano le celle pei signori romani che non volevano bagnarsi in pubblico.-Non si guarda, si va innanzi altri pochi passi: ci siamo.

Guardiamo un pezzo in silenzio.

Siamo in mezzo a un campo cinto da quattro muri altissimi. Nel muro dirimpetto a noi v'è una gran porta per cui si vede un altro campo. In fondo a questo una seconda porta, in dirittura della prima, per cui si vede un altro campo ancora, e via via, fino a un muro lontanissimo che sembra chiudere l'edifizio. Alla nostra sinistra una porta come le prime, e altri campi, e altri muri, e altre porte; e tutto deserto e silenzioso come una città abbandonata.. Guardiamo in terra: v'è ancora in un angolo un pezzo di pavimento di mosaico uguale e intatto come fatto ieri. In alcuni punti il terreno s'alza, in altri s'abbassa. Vicino al muro v'è un tronco di statua; accanto alla porta alcune nicchie vuote.

-Qui c'era un grandioso porticato,-dice uno. Non ve n'è più traccia, andiamo innanzi. è una solitudine che fa quasi paura. Eccoci nel secondo recinto. Muri, porte e mucchi di terra come nel primo, e deserto, e silenzio. Oh! eccoci nel centro dell'edifizio. Di qui si capisce qualcosa. Vediamo.

Guardo intorno: che triste e grande spettacolo! Mura altissime, nere, scalcinate, che serpeggiano dalla sommità al suolo, lasciando in qualche punto veder la campagna. V?lte alte e leggiere, somiglianti a cupole di chiese, rotte a mezzo della loro grande curva, e terminanti in punte, in lingue, in tronchi d'arco prolungati e sottili, che minacciano rovina. Qua e là enormi pilastri monchi, spezzati a mezzo come da un urto violento, o man mano digradanti in grossezza dal basso all'alto, fino a disegnarsi nel cielo smilzi e snelli come obelischi; porte e finestre sformate, squarciate agli spigoli come dall'uscita forzata di un corpo più grande e dentellate in giro, e dentro buie come bocche di mostri; scale coi gradini divelti, spaccati, corrosi, in mille modi scemati e guasti, come dall'opera di mille mani rabbiose. E via pei muri fori d'ogni forma, e incavature larghe e cupe, di cui non si scerne il fondo, e vestigia interrotte della commessura dei piani, e tracce di porte, di nicchie, di pareti, di canali, di vasche. E in terra, in mezzo a queste rovine gigantesche, larghi pezzi di pavimento, simili a macigni franati, sostenuti da pali, coperti ancora dall'antico mosaico; massi di marmo bianco, rottami di colonne di porfido, pietre di sedili, frammenti di statue, ornati di capitelli, lastre e sassi; ogni cosa alla rinfusa, sossopra, come crollato pur ora. E fra masso e masso, fra rudero e rudero, le erbe e i fiori silvestri, con cui la terra, ultima trionfatrice, apertosi il varco a traverso i pavimenti marmorei, risaluta, dopo un giro di secoli, il sole.

Si guarda e si pensa. è triste, è penoso lo sforzo che si fa per ricostrurre nella mente nostra l'intero edifizio. Quegli avanzi non bastano: sono troppo rotti e sformati. Si segue coll'occhio la curva d'un arco, e si dimentica il contorno della colonna; si va oltre nella direzione d'un andito, e il profilo d'un pilastro ci sfugge; ci sfuggono, via via che si disegnano, le linee, e con le linee le proporzioni, e con le proporzioni l'effetto, che sarebbe immenso, del tutto. Quegli avanzi son come le note interrotte d'una musica lontana, di cui s'indovina, più che non si sente, la melodia.-Se ci fosse qualcosa di più,-si pensa;-se per esempio quella parete fosse finita, se qui non ci fosse questo vuoto, se là rimanesse ancora quell'atrio, quante cose se ne potrebbe argomentare e capire! Che peccato!-E più e più volte si ricomincia, con mesto desiderio, questa ricostruzione mentale. Si vedono di sbieco, per una porta, i primi gradini di una scala; chi sa dove mena? Si corre con grande curiosità, si guarda: che stizza! La scala è troncata a metà. Si vede l'imboccatura d'un andito: o dove riesce? Si corre a vedere: oh delusione! riesce nei campi. Si stanca l'occhio sulle v?lte e sulle pareti che dovevano essere dipinte, caso mai ci restasse un po' di colore, qualche linea, una traccia qualsiasi: nulla. Nulla delle vaste gallerie dove si facevano i giuochi, nulla dei portici stupendi che cingevano l'edifizio centrale, nulla delle enormi colonne che sostenevano il piano di mezzo. Ebbene, ci si attacca a quel poco che resta, si combina, si congettura, si fantastica. Le sale del centro si può supporre che cosa fossero. Qui si capisce che si nuotava, là si dovevano vestire, sopra ci dovevano essere le biblioteche, di qui doveva scendere l'acqua. Si seguono attentamente le ondulazioni del terreno, si tien l'occhio fisso nelle nicchie vuote, come se ci fossero ancora le statue, si entra nelle celle dove l'immaginazione è più raccolta, e si guarda a lungo in terra e sulle pareti, che cosa? Nulla; ma si guarda, nè ci si può allontanare prima d'aver molto guardato.

E il pensiero s'immerge nel passato.

Animo, rifacciamo queste mura e su di esse i grandi dipinti fantastici, e lungo le pareti i duemila sedili marmorei, e nelle nicchie i capolavori dello scalpello antico, l'Ercole, la Flora colossale, la Venere Callipigia; e lungo i portici e in giro per le sale le colonne di porfido; e lassù, in alto, le celle dorate e inghirlandate; e laggiù, in fondo, i giardini ombrosi e le fontane dai cento zampilli. E duemila Romani in preda all'ebbrezza dei piaceri. L'aria è profumata. Cadono nelle celle le bianche stole delle matrone, e le schiave affannate sciolgono i calzari purpurei e le treccie brillanti di perle. Dall'acque, infuse di balsami, emergono i volti accesi di voluttà. Sull'orlo delle vasche si affollano i servi colle striglie argentee e i vasi degli unguenti. Al rumore delle acque cascanti si mescono le musiche e i canti dei cenacoli, le grida del popolo plaudente ai giuocatori risonano dalle gallerie, e s'odon le voci dei poeti che declaman i versi, e via per gli anditi e per le scale e pei recessi dell'edifizio enorme echeggiano accenti allegri, e trasvolano veli candidi, e passano, salgono, scendono, s'incontrano senatori canuti e dame chiomate, e giovinetti, e ancelle, e schiavi; e si confondono in un vocìo continuo tutte le lingue ed in uno splender diffuso tutte le ricchezze del mondo.

Ed ora muri diroccati, mucchi di sassi, un po' d'erba selvatica, e silenzio.

Oh! poter rivivere un minuto quella vita, o vederla vivere un istante, con uno sguardo solo, come si vede una cosa fuggente!

Ora tutto è mutato. Invece delle vaste sale cinte di colonne, quei gabbiotti soffocanti degli stabilimenti di bagni, coll'avviso:-è proibito di fumare.-In luogo delle grandi piscine, la tinozza dove si sta rattrappiti e immobili, come i feti nei vasi; e in cambio delle musiche dei cenacoli, il campanello per la biancheria!

Eravamo nell'ultima sala, o campo (chè non v'è più tetto), quando il silenzio profondo che regnava intorno fu rotto improvvisamente da una voce:-?Veni cà?.

Guardammo in su: era un soldato di fanteria che dal sommo d'un muro altissimo chiamava i suoi compagni rimasti giù, e accennava alla bella veduta che gli si offriva dintorno.

Alcuni soldati vicino a noi raccoglievano le pietruzze dei mosaici. Altri esperimentavano l'eco gridando dei comandi militari. Più in là v'era una signora con un ufficiale.

Salimmo anche noi dov'era il soldato. La scala è aperta, se ben mi ricordo, in un pilastro. è una scala larga e comoda; ma interminabile. Giungemmo senza fiato sur un piano, credendo che fosse l'ultimo; ma guardando intorno, ci accorgemmo che non eravamo nemmeno a mezz'altezza. Da ogni parte ci sovrastavano archi e mura, che pareva s'inalzassero man mano che salivamo. Guardammo giù, e ci meravigliammo d'esser tanto saliti. Da quel punto, abbracciando con lo sguardo una gran parte dell'edifizio, potevamo formarci un concetto più adeguato della sua grandezza. Ci trovavamo sopra una lingua di v?lta sottilissima, che pareva stare in aria per miracolo. A guardar giù per le fessure girava la testa. Da un lato si vedeva una lunga fila di porte. Ci avanzammo; ma fatti pochi passi, ed accortici che la v?lta mancava, si dovette tornare addietro. Si vedeva di là il monte Testaccio, i deserti ?prati del popolo romano?, la basilica di San Giovanni Lateranense, e la fuga sterminata degli archi d'un acquedotto a traverso la campagna romana, nuda, triste, infinita come un oceano immobile e morto....

Si scende, si torna verso l'uscita, di sala in sala, di rovina in rovina, sempre fra mura gigantesche e grandi porte, per cui si vedono altre mura e altre porte lontane. A un tratto, voltandoci a sinistra, vediamo un grande portico oscuro, e uno spazio di terreno senz'erba, sparso di marmi. Ci avviciniamo: son pezzi di statue. Ci son teste enormi con la fronte e con gli occhi levati in alto, che dovevano sorreggere degli architravi; torsi di guerrieri atletici senza capo; in un canto un mucchio di teste di dèi, di soldati, d'imperatori, di vergini, tutte mutilate, e col viso rivolto verso chi guarda; rottami di colonne che tre uomini non possono abbracciare, e mucchi di figurine e di pezzi d'ornato staccati dai capitelli, e pietre di mosaico sparse. Tutti questi marmi lasciati così in terra, e disposti in un cert'ordine, dànno a quel luogo qualcosa dello aspetto d'un camposanto; quelle teste paiono crani; al primo vederle si dà un tremito, come se guardassero. V'è, fra le altre cose, una manina di donna colle dita tronche e un po' di braccio piccino e gentile, abbandonata in terra, mezzo nascosta e lontana da tutti gli altri rottami, che desta un senso di pietà, come se fosse di carne....

Uscimmo senza parlare. Tale è l'effetto che fanno le terme: la gente entra, guarda, gira, e nessuno parla; si passano accanto e non si badano: tutti pensano; si entra allegri, si esce tristi. Ritornando in città ci parve d'entrare in un mondo nuovo. Pensavo alla strana impressione che m'aveva fatto fra quelle mura il suono di certe parole piemontesi e come a Giacomo Leopardi sull'?ermo colle? sovveniva a me pure

l'eterno e le morte stagioni e la presente e viva e il suon di lei...;

la quale un giorno sarebbe parsa ad altri altrettanto remota quanto pareva a me quella dello splendore delle Terme.

Ahimè! Che poca cosa ci paiono anche i nostri trionfi e le nostre gioie nazionali davanti a questi cimiteri di secoli!

UN'ADUNANZA POPOLARE NEL COLOSSEO.

Erano le tre dopo mezzogiorno. Il popolo romano si recava al Campidoglio per eleggere la Giunta provvisoria. Tutte le strade che conducono al Campo Vaccino erano percorse da folti drappelli di cittadini con bande musicali e bandiere. Arrivati al Campo, i drappelli si confusero in tre o quattro lunghissime colonne, e mossero insieme verso il Colosseo. Andavano a otto a otto, a dieci a dieci, allineati e stretti come soldati, levando tratto tratto altissime grida e lunghi applausi.

Le gallerie del Colosseo erano già affollate. Centinaia di fazzoletti e di bandiere sventolavano fra gli archi altissimi, e dentro suonava un gridìo continuo e diffuso come il muggito del mare in tempesta. Si vedeva una colonna dopo l'altra versarsi nel vasto recinto, e rimpicciolire subitamente come se ne sparisse per incanto una gran parte. Turbe di popolo, che tenevan tutta la strada, si vedevano ristringersi e quasi perdersi, come piccoli drappelli, in un cantuccio dell'arena. Continuamente affluiva popolo, e la folla dentro non pareva crescere. Una parte della prima galleria era piena zeppa di gente; ma così lontana, benchè solo, a mezz'altezza del muro, da non riconoscerne i visi a occhio nudo. Dalla galleria in giù, su tutti i gradini, su tutti i macigni, su tutti i rialti del terreno v'era popolo: donne, bambini, signori, poveri, tutti vestiti a festa, con nastri tricolori e coccarde. Da una parte dell'arena s'alzava un palco, e sul palco un pulpito; intorno molte grandi bandiere tenute in pugno da cittadini. Sul cielo del pulpito un gruppo di pompieri. Intorno al palco, sul tetto dei tabernacoli e sui macigni della gradinata, una fitta di gente che presentava allo sguardo una vasta e continua distesa di visi e di ?sì? attaccati ai cappelli. Davanti al pulpito il grosso della folla. Da ogni parte braccia alzate di gente che si accennavano gli uni agli altri il cerchio maestoso dell'anfiteatro; sulle più alte punte dei muri gente e bandiere. Le bande suonavano, le grida andavano al cielo, un sereno purissimo e una splendida luce di sole faceano la festa più bella e più solenne.

Ecco Mattia Montecchi.

Un fragoroso applauso prorompe dalla folla e un lungo e altissimo evviva.

Il vecchio patriotta romano, accompagnato dagli amici, avvolto e nascosto quasi dalle bandiere, sale sul pulpito a capo scoperto, e preso appena fiato comincia con voce commossa:

-Popolo romano, rivendicato alla libertà e restituito per sempre alla comune patria....

S'interrompe un istante, e poi con irresistibile slancio.

-....Io ti saluto!

L'ultima sua parola muore in un singhiozzo; egli si copre gli occhi col fazzoletto e ricade sulla seggiola.

La folla manda un grido d'entusiasmo, tendendo le braccia e agitando le bandiere.

-Silenzio! Silenzio!

Il Montecchi ricomincia a parlare, a voce bassa, interrompendosi tratto tratto. La folla, ondeggiando e rimescolandosi, si stringe intorno al pulpito. Le parole dell'oratore non giungono fino a me. Mi faccio innanzi per intendere qualcosa.

-....Il potere temporale del Papa,-egli esclama,-è caduto!

Un tuono d'applausi.

-è caduto nella polvere!-grida una voce tra la folla, e un braccio convulso si solleva, e si agita, al disopra delle teste.

-è caduto per sempre!-ripete il Montecchi.

-Nella polvere!-ripete con accento imperioso la voce di prima.

-Silenzio! Silenzio!

-La caduta del potere temporale dei papi,-prosegue il Montecchi,-è uno dei più grandi fatti registrati dalla storia!

Un giovane accanto a me alza una mano e grida con tutta la forza dei suoi polmoni:-Dalla storia della civiltà!

Il Montecchi si volta e guarda come per chiedere che cosa fu detto, e soggiunge:-Uno dei più grandi fatti registrati dalla storia.

-Della civiltà!-ripete il giovane.

-Della civiltà,-aggiunge il Montecchi in atto di condiscendenza.-Ora tocca a noi di mostrarci degni della nostra fortuna. Roma non può restare, nemmeno per pochi giorni, senza governo....

-Viva l'Italia!

-....I nostri nemici potrebbero trarne argomento a dire che il popolo romano non è ancora maturo alla libertà....

-Viva la libertà! Abbasso i nemici di Roma! Viva Vittorio Emanuele in

Campidoglio!

-Viva! Ma prego.... lasciatemi continuare.

-Viva Montecchi!

-Vi ringrazio.... fate un po' di silenzio.... Bisognava eleggere una Giunta.... Noi avremmo voluto che il popolo facesse l'elezione in modo regolare, per mezzo delle schede, coi voti.... Ma non c'era più tempo.... Abbiamo dunque pensato di rivolgerci direttamente al popolo romano....

-Bravo! Viva!

-....Al popolo romano, e di facilitargli l'opera preparando un elenco di cittadini appartenenti a tutte le classi della società e a tutti i partiti politici....

-Benissimo!-Viva Montecchi!-Viva Roma!-Viva....

-Un momento.... Ora, vedete anche voi che sarebbe impossibile aprire una discussione sopra ciascuno dei nomi, che sono quarantaquattro, Bisognerà dunque ristringersi ad approvare o disapprovare l'elenco nel suo complesso. Ci sarà qualche nome che ad alcuni non piacerà; ma capirete che non è possibile fare un elenco di quaranta persone che riescano a tutti ugualmente accette. Ad ogni modo qualche nome si potrà cambiare. Terminata la lettura, io darò la parola a uno di voi, il quale esponga il suo parere, e dica le ragioni che può aver da dire, in generale, contro le proposte della Commissione che raccolse i nomi. Dopo che quest'uno avrà parlato, state bene attenti....

-Viva Vittorio Emanue....-grida all'improvviso una voce acuta.

-Silenzio! Smetti! Non è il momento!-si mormora da ogni parte.

-Guardalo lì quello che non vuole che si dica Viva il Re!-grida l'interruttore importuno ad uno dei suoi censori.

-Ma chi ti dice ch'io non voglio che si grida viva il Re? Dico che non è il momento.

-Già, non è il momento adesso che ci ha liberati!

-Ma senti che bestia!

-Ma guarda....

-Silenzio,-grida il Montecchi;-accordatemi ancora qualche minuto di attenzione. Sentite. Dopo che uno di voi avrà parlato, io metterò a' voti l'elenco, nella sua totalità, s'intende; e allora, ricordatevene bene, chi intenderà di approvarlo leverà in alto il cappello....

Tre o quattrocento persone si scoprono il capo.

-No! non ancora!-grida il Montecchi;-ve lo leverete poi; come volete approvare l'elenco se non v'ho ancora letto i nomi?

Risa generali; caldi diverbi fra coloro che si tolsero il cappello e coloro che risero; bisbiglio prolungato.

Il Montecchi:-Vi prego.... un po' di silenzio.... pochi momenti ancora.... Chi intenderà di approvare l'elenco alzerà il cappello, chi non vorrà approvarlo terrà il cappello in capo. Se ci sarà qualche nome da cambiare, quello di voi che verrà qui a parlare lo dirà, e i nomi saranno cambiati. Ma mi raccomando; lasciate leggere tutti i nomi di seguito senza interrompere. Parlerete dopo. Vedete, è l'unica maniera di far presto e bene. Se, per leggieri dissensi su questo o su quel nome, dovessimo restare un altro giorno ancora senza governo, forniremmo pretesto ai nostri nemici di calunniare il popolo di Roma.

Vivi applausi.-Viva la Giunta! Viva Montecchi! Viva Vittorio Emanuele in Campidoglio!

-Viva!... Ora vi prego per l'ultima volta.... un po' di silenzio.

Uno di quei che sono intorno al pulpito alza tanto la bandiera che quasi la dà negli occhi al Montecchi.

-Tien giù quella bandiera!-gli grida il vicino.

-Ma è la bandiera nazionale, sai!-risponde l'altro sdegnato.

-Vedo; ma perchè è la bandiera nazionale devi cavar gli occhi alla gente?

-Guarda il prete!

-A me prete?

-Silenzio,-si grida all'intorno.

-Leggerò i nomi,-ripiglia il Montecchi;-state attenti; ma ve ne riprego, non m'interrompete, se no si va troppo per le lunghe; abbiate un po' di pazienza....

-Legga! Legga pure!

Si fa in tutta la folla un silenzio profondo.

Il Montecchi legge:-Tale dei tali.

Passa senza contrasto; un momentaneo bisbiglio e silenzio.

-Tale dei tali.

Vivi applausi; il popolo è ben disposto, l'affare va bene.

-Tale dei tali.

Uno scoppio d'urli e di fischi, un agitar di mani, un pestar di piedi, un rimescolamento, un fracasso d'inferno si leva e si prolunga per cinque minuti da ogni parte dell'affollato uditorio. Il Montecchi incrocia le braccia sul petto e sta aspettando in atto rassegnato e dimesso che la tempesta si queti.

Finalmente alza una mano.

-Silenzio! Silenzio!-si grida dalla folla.

-Signori!...-comincia il Montecchi con un filo di voce;-vi prego; le cose sono andate così bene finora, continuiamo come abbiamo cominciato, non discutiamo i nomi, non perdiamo tempo, parlerà uno per tutti, tutti insieme non si conclude nulla, lasciatemi leggere tutto l'elenco, abbiate un po' di pazienza ancora....

-Bravo! Bene! Legga! Legga! Non si discute! Silenzio! Legga!

Lasciatelo leggere!

Il Montecchi legge:-Tale dei tali.

Un altro e più violento scoppio di grida e fischi e pestar di piedi e agitare di mani. E di nuovo il Montecchi incrocia le braccia in atto di rassegnazione.

-Abbasso! Abbasso!-grida la folla.

-No, viva! viva!-alcuni rispondono.

-Chi viva? Abbasso! Chi sono quei paolotti laggiù? Fuori! è passato il tempo! Abbasso! Abbasso!

Il Montecchi:-Prego....

-Abbasso i mercanti di campagna!

Il Montecchi, con voce semispenta:

-Prego, non discutano i nomi....

-Non si discute! Non si discute! ?Se dice per di' che so' mercanti de campagna!?

Scoppio d'applausi.

-Non discutano, prego....

-?Hanno fatto massacrare il popolo romano!?

Applausi fragorosi.

-....Ma prego....

-?Nun li volemo!?

-....Un po' di silenzio....

-?Nun li volemo!?

Cento voci assieme:-Parliamo uno alla volta, perdio!

Il fracasso è assordante, la folla agitatissiina; alcuni apostrofano con calde parole il Montecchi, altri apostrofano la folla dalle gallerie, si sventolano le bandiere, si formano dei capannelli, si batton le mani, si strepita, è un casa del diavolo infinito.

A poco a poco ritorna la quiete. Il Montecchi continua a leggere. Il primo nome passa. Il terzo è accolto da lunghi applausi. Otto o dieci altri non incontrano opposizione. Qualcheduno solleva un po' di mormorio.... Sia lodato il cielo, l'elenco è finito!

Si applaude.

Il Montecchi ricade sulla sua seggiola e si asciuga la fronte.

Allo strepito succede nella folla un vivissimo bisbiglio.

-Ora chi parla?-Chi vuol parlare?-Parla tu.-Il tale ha detto che parlerà.-No, parla quell'altro.-Parliamo noi.-Parlino loro.-Zitti! Parlano.

A piedi del pulpito, poco al disopra della folla, si alza una testa e si stende una mano.

-Silenzio! Silenzio!

Si fa un grande silenzio e si ode una voce incerta e sottile:

-Io piglio la parola in un momento solenne....

Un rumore improvviso da una parte dell'anfiteatro copre la voce dell'oratore.

-....Io piglio la parola in un momento solenne....

Un tale accanto al pulpito lo interrompe; l'oratore si volta bruscamente:-In nome di chi parla lei? In nome del deputato Checchetelli?

Segue un diverbio, il Montecchi si intromette, l'oratore ricomincia a parlare.

-Forte! Forte!-grida la folla.

-Salga su!-gridano i membri della Commissione.-Venga qui sul pulpito! Si farà sentir meglio!

E tutti insieme pigliano l'oratore per le braccia e lo tirano su. Tutta la persona di lui sovrasta alla folla. è un giovane sui venticinque anni, alto, pallido. Ha il capo fasciato. è stato ferito dagli zuavi salendo in Campidoglio. La folla prorompe in applausi.

-Silenzio!

Egli parla.

Sulle prime non si sente; ma la sua voce man mano si innalza e si rafforza, e la parola esce vibrata e distinta.

-....Ben fecero gli egregi uomini della Commissione a radunarsi in questo antico ed angusto recinto. Essi dimostrarono con ciò che d'ora innanzi gl'interessi del popolo non saranno più abbandonati agl'intrighi delle consorterie, ma discussi e propugnati alla luce del sole, in mezzo al popolo e col popolo!

Scoppio di battimani.

-Non si scherza,-bisbiglia il popolo.-Le canta chiare.-Non ha paura di nessuno.

L'oratore prosegue:-....In questo recinto che il tempo corrose, ma non distrusse; fra queste mura annerite dai secoli....

Violente interruzioni:-Alla questione!

L'oratore, levando al cielo lo sguardo e la mano:-Io veggo gli archi del Colosseo popolarsi di arcani fantasmi....

Nuovo e più violento scoppio di disapprovazione e di protesta:-Alla questione!-?Non volemo? prediche!-Le prediche ?so'? finite!-Non abbiamo bisogno di lezione!

L'oratore continua a parlare; ma la sua voce è soffocata dallo strepito della moltitudine.

Una voce stentorea si alza al disopra di tutte le voci e fa voltare tutte le facce:

-La cosa è chiara! L'elenco ?nun ce? piace! ?Nun volemo? liberali del momento, ?nun volemo? liberali d'occasione....

Applausi tonanti.

-?Volemo? gente provata, patriotti schietti, che ?ce se veda chiaro? nella vita loro!

Un'esplosione d'applausi.

E la voce di prima, con nuovo e formidabile sforzo:-?Nun volemo mercanti de campagna!?

Terza salva d'applausi.

-Va' a parlar tu!-Va' sul pulpito!-Fa' valere le nostre ragioni!

Va'!-Presto!-Su!

Il fortunato interruttore, sollecitato e spinto da tutte le parti, chiamato dal Montecchi, eccitato dalle grida della gente lontana, si apre un varco tra la folla e si slancia verso la tribuna. Sbalzato da un suo spintone cinque o sei passi indietro, mi trovo in una corrente che move verso l'uscita, mi ci abbandono, e in pochi minuti, pesto, sudante e spossato, mi trovo fuori del Colosseo.

Ecco tutto quello ch'io vidi.

Stetti un momento là incerto tra il tornar dentro e l'andarmene, e poi presi un partito fra i due: salii sur un rialto del terreno accanto all'arco di Costantino, e come soleva dirmi il mio amico Arbib, ?mi misi a fare della poesia inutile?, guardando il Colosseo.-Le solite grida,-pensavo,-la solita confusione, la commedia solita delle radunanze popolari; ma che importa quello che vi si faccia e quello che vi si concluda? Sono grida di libertà, e basta perchè, a sentirle di qui e a sentirle uscire dal Colosseo, mi destino nell'anima una gioia nuova, ineffabile, superiore a tutte le gioie che mi sian mai venute finora dall'amor di patria.-Viva l'Italia-viva la libertà-viva Roma redenta-....nel Colosseo! In questo campo! In mezzo a questi archi!

E giravo l'occhio intorno come per assicurarmi del luogo dov'ero.

-....Il Bonghi dice che qui ci sentiremo piccoli. Perchè? Piccolo si sentirà chi si vorrà misurare con chi fu grande. Noi qui non veniamo a misurarci; ma ad ispirarci, ad attingere forza e coraggio, a meditare e ad ammirare. Il Colosseo!-ho inteso dire;-che vi potrà dire il Colosseo? Vi narrerà le glorie dei gladiatori e i supplizi dei cristiani? Ed io vi rispondo:-Sì....

In quel punto uscì dall'anfiteatro un altissimo evviva e un allegro suono di banda.

-Sì.... ecco che cosa mi dice il Colosseo. Mi dice che dove gli uomini schiavi si sgozzavano per ricreare un tiranno, ora convengono i cittadini a salutare l'aurora d'una vita nuova; mi dice che dove perirono sotto le scuri o in mezzo alle fiamme gli apostoli della libertà e dell'uguaglianza, ora convengono cittadini liberi ed eguali a esercitare i loro diritti e a compiere i loro doveri, coll'anima lieta e serena; e questo vi par poco? E vi par che si possa dire che il Colosseo è muto?

Un altro scoppio di grida misto a suono di trombe mi giunse all'orecchio.

E poi una voce distinta:-Viva la libertà!

-Ah!-esclamai, rivolto al Colosseo, come se mi potesse intendere;-consolati, vecchio gigante; così monco e sfracellato come ti trovi, tu non fosti mai tanto bello nè tanto grande ai tempi degl'Imperatori!

UNA MATTINATA ALL'ALBERGO.

Non so se sia stato più vivo il piacere che provai entrando in Roma il 20 settembre, o quello che ebbi la mattina dopo, svegliandomi nella cameretta dell'albergo, appena rinvenni dall'illusione solita di credermi ancora dove avevo dormito la notte prima. Appena aperti gli occhi, il mio primo pensiero fu quello che m'era venuto a Monterotondo la mattina del 20:-Dunque quest'oggi ?s'attacca!?-E stetti un momento perplesso. A un tratto mi parve di sentirmi nell'orecchio una potentissima voce:-Roma!-e mi scossi da capo a piedi, e balzai d'un salto alla finestra. Apersi le imposte, e visto appena le bandiere e udito le grida del popolo, m'entrò nel cuore tanta gioia che mi diedi a ridere come un pazzo. Poi chiamai il cameriere, senza sapere perchè. Venne subito, allegro anche lui ch'era un piacere.

-Che mi comanda?

-è un romano,-dissi tra me, guardandolo;-un romano cameriere! Mi fa pena; avrà forse un lontanissimo antenato console, senatore, pontefice massimo....

-Come vi chiamate di nome di battesimo?

-Caio.

-....Caio Flaminio,-pensai,-Caio Gracco, Caio Sicinio, Caio

Curzio....

-Qual'è il vostro cognome?

-Tittoni

-Caio Tittonio, andatemi a chiamare un barbiere.

-Vado subito.

-Un barbiere romano.

-Guardi che caso! Il barbiere dell'albergo è lombardo.-Non lo voglio; andate a cercarmi un barbiere ?romano de Roma?; fate anche mezzo miglio, se occorre, vi ricompenserò della corsa; ma portatemi un barbiere romano.

-Sarà servito.

E se n'andò ridendo.

Non era senza perchè la mia pretensione: volevo scrutare lo spirito politico delle classi inferiori, e tutti sanno che quando s'è parlato con un barbiere si può contare d'aver parlato con mezzo mondo.

Il barbiere venne. Era un barbiere dello stampo dei nostri: un vecchietto azzimato, pulito, gaio, con le mani fredde e i rasoi cattivi.

Mentre cominciava l'operazione, io studiavo la maniera d'entrare in discorso.

Egli mi prevenne domandandomi con molta gentilezza:

-Il signore è emigrato?

-No.

-Italiano?

-Sì.

-Giornalista?

Diedi un balzo sulla seggiola e mi voltai a guardarlo negli occhi. Come mai poteva già sapere che insieme con l'esercito s'erano rovesciate su Roma le cavallette della stampa?

-Non sono giornalista.

-Dicevo, sa.... perchè ho visto il tavolino coperto di giornali e di carte.... Che gliene pare di Roma?

-è superba.

Fece un risolino modesto.

-....Noia, c'è male.... E poi, ora, è tutt'altra vita che ?ce se vive?!

-Siete contento del cambiamento?

-Se sono contento? ?Me pare da diventà matto, me pare?. L'Italia una, per Dio.... Ora speriamo che ?ce? sarà fatta giustìzia.

-Di che?

-Eh signore, ?ce so? molte cose da mettere a posto a Roma.

-Me lo immagino....

-....Prima di tutto, sa che cosa dovrebbe fare Sua Maestà il re

Vittorio Emanuele Secondo, appena entrato in Roma?

-Desidero di saperlo.

-Dovrebbe....-e qui stese un braccio e alzò la voce,-dovrebbe mettere a posto ?li macellari?, dovrebbe; che ?so na razza de cani?, glielo dico io, e fanno pagare tutto il doppio, e ?so? screanzati che ?nemmanco se ponno guardare in der grugnaccio, se ponno?, capisce?

-Oh cospetto! è proprio questa la prima cosa che deve fare il re?

-Questa.... e un'altra. Fare una legge con la quale dica che d'ora in avanti è fatta facoltà ?a li barbieri de? metter la bottega dove ?je? pare, senza quella ?prepotenza? che c'è adesso che le botteghe debbono essere a quella data distanza l'una dall'altra. Per cagion di questo, vede, a me m'è toccato di fare ?er giovanaccio de bottega? cinqu'anni di più, chè il locale vicino ce l'avevo, e li baiocchi pure, ma la bottega non la potevo mettere per via di quella legge ?'nfame?. Accidenti ai governi dispotici e viva Vittorio Emanuele! Quant'ho benedetto sto giorno io!... E poi un'altra cosa.

-Dite.

Qui abbassò la voce e mi disse nell'orecchio:

-Dei barbieri che tengono dal Papa, qui, in Roma, ce n'è la su' parte, glielo assicuro io.

-Ebbene?

-Accopparli.

-Siete severo.

-Sì, accopparli, senza misericordia ?co' sta razza de cani?; se no ?er? governo italiano se ne accorgerà, stia pur sicuro.

-Speriamo che faranno la barba con la dovuta prudenza.

-Non ci speri; bisogna far man bassa.

-E altro?

-Altro.... ci son tante cose; ma dica un po', ?ce? porteranno delle buone leggi, ?se? spera?

-Meglio di quelle che avevate, lo crederei.

-Bene; e dica.... Sento che ?ci? hanno una grande severità pei ladri, è vero?

Accennai di sì, voltandomi a guardarlo.

-è giusto.... Poi c'è la leva militare.... Eh già.... quella alle donne ?sarà un po' difficile de fajela entra'?.

-Lo penso anch'io.

-?Gran disciplina co' sti soldati eh??

-Quanta n'occorre, certamente. Avrete però osservato che gli ufficiali hanno buone maniere e che i soldati son buoni ragazzi.

-Già.... e scusi, sa, se son curioso.... si parlava giusto ieri sera.... che cos'è la ?ricchezza mobile??

-La ricchezza mobile?

-Già.

-....Provate l'altro rasoio, questo mi fa male.

-Quest'altro ?je? va?

-Questo mi va.... Avete visto la luminaria di ieri sera?

-La luminaria, sì.... ma che ?ce? porteranno tutte ?ste imposte che se dice??

-Eh già, le imposte, vedete.... in Italia.... relativamente a quello che potrebbero essere, tenuto anche conto delle condizioni agricole e industriali del paese, e considerata la proporzione delle forze produttive in relazione con le esigenze, dirò così, che sono molte e gravi, d'una grande amministrazione.... Capirete che la finanza è finanza, i bisogni, bisogni, i doveri, doveri, e per quanto si faccia e dica dai contribuenti, è pur sempre certo che i carichi dei cittadini sono in certo qual modo, e fino ad un certo punto, regolati sui principii d'un sistema economico senza del quale s'è sempre visto che gli Stati non si reggono e tutte le proprietà pubbliche e private ne vengono a soffrire gravemente....

-è chiaro.

-Lo capite anche voi.

-Diavolo!

-Picchiano: fatemi il favore d'aprire. Entrò il calzolaio: un gobbetto coi capelli grigi e il naso a becco.

-Scusate,-dissi al barbiere,-non posso rimandarlo indietro; bisogna ch'io mi misuri un paio di stivaletti; mi spiccio in un momento.

-Faccia pure.

Gli stivaletti andavano.

-Quanto volete?-domandai.

-Diciotto lire.

-....Son carini.

-Non è vero? Paiono fatti apposta per il suo piede.

-Eh no, voglio dire che sono un po' salati. A Firenze li pago sedici.

-....A Firenze è un altro par di maniche, caro signore; qui si paga tutto più caro. Ma io non sto sul tirato. A lei ch'è italiano glieli do per diciassette.

Il barbiere fu preso da un accesso di tosse.

-Ohè, dico!-gridò il calzolaio fissandolo fieramente;-che ci avete da fare delle osservazioni voi?

-?Gnente, gnente?; dicevo che l'Italia è un bel paese.

-E io vi dico che v'impicciate negli affari vostri, che già.... noi altri.... ?armanco?.... agl'italiani la gola ?nun je la tajamo?.

-E ?manco? noi ?nun je stroppiamo li piedi?.-Potrest'essere più educato, ?me pare?.

-Più educato?-(accendendosi).... Io già, se ve l'ho a dire chiara e netta, la corte agli zuavi non glie l'ho mai fatta.

-E io neppure!

-Resta a sapersi!

-Come resta a sapersi?

-?Se conoscemo?.

-Sicuro che ?se conoscemo?.

-?Er regno? dei preti è finito.

-Me ne rallegro.

-Non ?de? core.

-Più ?de? voi.

-Ci ho i miei dubbi.

-Via, via,-dissi, mettendomi in mezzo,-lasciamo queste quistioni; non son giorni questi da bisticciarsi fra amici; bisogna andar tutti d'accordo, e gli uni dimenticare i torti degli altri, se ce ne sono. Stringetevi la mano subito, in presenza mia, o non do il becco d'un quattrino a nessun dei due.

Si porsero la mano, ma senza toccarsela.

-Animo, stringetevela,-dissi.

-Lui ha da dir prima viva l'Italia!-disse il barbiere.

-E io ?nu je vojo dà? questa soddisfazione,-risponde l'altro.

-Animo, ditelo per far piacere a me.

-Viva.... l'Italia.

Si strinsero la mano.

Ma il calzolaio subito con un rincalzo di passione:-E io lo ?so? stato sempre italiano, capite!

-Sì, sì, lo credo,-gli dissi,-vi si vede in viso, eccovi i denari, andatevene pure.

-E io non glie l'ho fatta mai la corte agli zuavi, sapete, non glie l'ho fatta mai.

-Andate, andate.

-E non è questa la maniera ?de? screditar la gente....

-Via....

-E ?se? rivedremo....

-Chetatevi, ve ne prego, vien gente....

Entrò la stiratora, una donnicciuola sui cinquant'anni, con un'aria di vittima, col cappellino e lo scialle messi per traverso: il calzolaio si fermò sull'uscio.

-è lei, signore,-mi domandò la donna con voce tremante,-che mi ha da dar della biancheria?

-Io; ma bisogna che me la riportiate domani.

-Si farà.... quello.... che.... si.... potrà.

-Che cos'avete?

La stiratora scoppiò in pianto.

-Che v'è accaduto?-domandai, avvicinandomele.

-Ah! signore.... mio fratello e mio cognato....

-Son morti?

-No.... sono impiegati alla Revisione.

-Ebbene?

-....Li mandano via.

-Chi?

-Gl'Italiani.

-Ma, che! Rimarranno nel loro impiego, statene sicura; il governo italiano non toglierà il pane a nessuno; datevi pace, buona donna.

-Ah! no.... no.... è inutile.... glielo hanno già detto....

E un altro scoppio di pianto.

-L'avranno voluto loro,-esce a dire il calzolaio,-e se lo son meritati.

-Che cosa?-domanda sdegnosamente la donna, sollevando il viso bagnato di lacrime.

-?Ah! credete che nun se sappia er perchè? Ci avemo er nostro giuramento (giungendo le mani e modulando la voce); no se pole, ci avemo er nostro giuramento de mantenecce fedeli ar Papa?!

-Non è vero!

-Andiamo via, chè ?so? i soliti mezzi ?de? cercar gl'impieghi....

-?Eh, stateve zitto?,-gli ribatte il barbiere,-?nun me? state a far tanto l'italiano ?co' sta? povera donna, che tanto ve se vede sotto la coda!

-A chi?

-A voi!

-Ve do questa scarpa sulla faccia!

-Finitela, via.

-E io ?ve faccio attastà sto? rasoio.

-Fuori di casa tutti quanti!

-Ma dica lei che è emigrato....

-Non sono emigrato.

-Senta lei che è giornalista....

-Non sono giornalista; lasciatemi stare, uscite subito tutti di qui, sono stanco dei vostri piati, andate a gridar in piazza e non mi seccate più in casa mia!

Ciò dicendo li spingo l'un dopo l'altro verso l'uscio, ed escono vociando tutti insieme fin giù per le scale.

-?Er regno de preti è finito?!-Non è la maniera ?de? metter la gente in mala vista dei forestieri!-Non è vero.... il giuramento.... si resta senza pane....-è finito!-Ci rivedremo!-Giù le code!-Non è vero!

-Andate! Andate, che il diavolo vi porti!

E chiusa in furia la porta mi gettai sul seggiolone esclamando:-Pace!

Pace,

O esacerbati spiriti fraterni!

Ah, buon Dio! Anche il 20 Settembre, visto dietro le quinte....

RICORDI DELLE CATACOMBE

(Venticinque anni dopo).

Ci andava innanzi lentamente, portando un cerino acceso e strascicando i sandali, un piccolo frate tarchiato, che in alcuni punti teneva quasi con le spalle tutta la larghezza del corridoio, e ci copriva con la sua ombra.

è violenta e triste la prima impressione che si risente discendendo dalla grande Roma piena di luce e di vita in quel freddo cimitero sotterraneo, dove sulla morte è anche ora passata la devastazione, e dove si vedon congiunti tutti i più tetri aspetti d'una cava, d'una grotta e d'una carcere. E si va innanzi a malincuore, nell'odore umido della terra, diffidando del suolo ineguale, e pensando con inquietudine che, se il frate sparisse, si perderebbe la lena alla corsa, e forse il lume della ragione, prima di ritrovare l'uscita. Ma, a poco a poco, quel labirinto di anditi angusti, quelle fughe di buche sepolcrali nereggianti nelle pareti come grandi bocche semiaperte, quei piccoli vani per gli uffizi del culto, dove i fedeli stavan raggruppati e stretti, come quando aspettavan nei circhi l'irruzione delle belve, attirano e soggiogano tutti i vostri pensieri. Se vi resta ancora un pensiero profano, cede anche questo alla vista della prima ampolla incastrata nel tufo, nella quale siete spinti a cercare le tracce del sangue che vi fu racchiuso, e quasi un ultimo fremito della vita che fuggì con esso dalle vene del martire, o svanisce alla prima lettura di una di quelle iscrizioni semplici e rozze: ?Pax tecum?, con accanto un nome di battesimo, che non vi par di leggere, ma d'udir profferire intorno a voi dalla voce sommessa di chi ha amato e sepolto chi lo portava. Il frate si soffermava a quando a quando per rischiarare la cripta di una famiglia, di cui è scomparso ogni avanzo, o nomi di pellegrini d'altri secoli incisi nelle pietre, o una grata sottile, dietro la quale, fra poche ossa biancheggianti, ci fissavano due occhiaie profonde, con quello sguardo immobile da mille e ottocento anni, che par che aspetti con fede invincibile l'adempimento d'una promessa. Ma più che altro ci arrestavamo a quelle buche mortuarie dei bambini, così strette, da parere che neanche un piccolo cadavere potesse entrarvi, se non spinto dentro a forza come un corpo ancora vivente e ribelle alla sepoltura. Ah, lì pure sono i bambini quelli che vi prendono al cuore, quei poveri piccoli cristiani messi a dormire l'un sull'altro, ammucchiati, quasi schiacciati, oppressi anche nella morte dalla terra, come eran stati nella vita dal terrore, e così lontani dalla luce del giorno e dal verde dei campi, rimpiattati, più che sepolti, come carne maledetta. E col sorgere della pietà vi cade ogni ribrezzo del luogo: una curiosità grave e reverente vi spinge innanzi per quel labirinto tenebroso; voi cercate con gli occhi gli epitaffi e i sepolcri come se non tutti vi dovessero essere ignoti; sentite a poco a poco come una stretta del vincolo che v'unisce ai morti che là riposarono, e il nome che essi ebbero comune con voi vi risuona nell'animo con un novo suono, dolce e solenne; vi guida sotto a quelle v?lte, infine, quasi un ricordo lontano di ricordi lontani, soavi e misteriosi, che vi passan per la mente affollati, senza forma di parola, come una melodia appena intesa. Quanto vi par lontana la capitale d'Italia! Ma più lontane di ogni cosa, quasi monumenti e mostre d'un'altra religione, le superbe basiliche dorate e le sfarzose carrozze pontificali, che avete visto poc'anzi, lassù, in quel mondo dove splende il sole.

*

Si discese a un altro piano di gallerie, e si riprese a andare, nell'ombra del frate. Il lumicino rischiarava di sfuggita anditi laterali, dove entra a stento una persona, e che svoltano nell'oscurità a pochi passi dall'imboccatura, altri anditi riempiti da frane di sabbia, ed altri incominciati a scavare, e lasciati lì; i quali s'allacciano forse a una rete di sotterranei più vasta. Si passa sotto a v?lte che vi fanno curvare la fronte; si discende per brevi tratti, come verso l'orlo d'un precipizio; poi si risale lentamente, si torna a discendere, si svolta e si risvolta, e par di tornare sui proprii passi e di riconoscere crocicchi, cubiculi, sfondi già visti; quando in realtà si procede. A volte, il suono dei vostri passi v'illude: vi par di sentir camminare altra gente davanti e dietro di voi, dei passi che s'avvicinano e s'allontanano, nei corridoi accanto, al piano di sopra, al piano di sotto, come di gente sorpresa che si sparpagli da tutte le parti, in punta di piedi. In altri momenti, quando il frate svolta un breve tratto prima di voi e rimane per poco invisibile, il fruscìo della sua tonaca e dei suoi sandali non vi par più il suo; suona come se invece d'andar oltre, si riavvicinasse, e vi balena alla fantasia un incontro miracoloso, l'apparizione di uno spettro di quella necropoli che v'aspetti alla svoltata, immobile e muto, e vi chiude il passo come a un miscredente sacrilego. E allora continuate a sognare, e vedete passar vagamente, lungo le pareti nere, al chiarore danzante della fiammella, uomini pallidi e austeri, capi curvati, visi estatici, occhi accesi di pianto e di speranza, che si fissano nei vostri con un'espressione di bontà ineffabile, gruppi furtivi di gente povera e umile, una confusione silenziosa di fanciulle, di vecchi, di servi, di gladiatori, di coloni, di patrizi, che vanno a passo lento, con le lampade d'argilla a la mano, e dileguano per gli ambulacri, come ombre; e pei lunghi anditi vi giungono all'orecchio salmodie di una dolcezza infinita, e dalle porte dei cubiculi singhiozzi di madri che adagian nella fossa i corpicini, dicendo con accento di sovrumana certezza:-Ti rivedrò! Aspettami in pace, figlio mio!-e sentite alle spalle i passi gravi e gli aneliti dei fedeli che portano i corpi lacerati dalle fiere, stillanti di sangue. Come dovevano amarsi! E come dovevano amare il loro Dio vilipeso, beffato, effigiato sui muri con un capo animalesco, pendente da un patibolo infame, quelli che davan la carne al fuoco e ai flagelli piuttosto di dire che non l'amavano! E intorno alle immagini loro si dilata e si rischiara al vostro pensiero quel labirinto funereo che vide tanti addii supremi, tanta rassegnazione, tanto dolore, tanto coraggio; sentite nella stessa riverenza amorosa, che la memoria di quei morti v'ispira, d'esser loro eredi e loro figli; ma con un senso acuto di rammarico,-col rammarico di non poter dare al servigio della vostra fede il santo amore della povertà e l'eroico disprezzo della vita con cui essi professarono la propria. L'immaginazione, frattanto, vi fa un singolare inganno in quel pellegrinaggio: il vostro pensiero, di là sotto, non risale già alla Roma attuale; quella che __sentite__ sul vostro capo è l'antica; sentite e pensate come se, risalendo all'aria aperta, vi doveste ritrovare fra gli splendori e gli orrori del regno dei Cesari; e quando vi s'affaccia improvvisa l'immagine dell'aula di Montecitorio, che avete fissato di visitar tra un'ora coi vostri compagni di viaggio, vi produce un senso così vivo di stupore, che del vostro stupore medesimo rimanete maravigliati, come d'un caso non mai provato di ?doppia coscienza?.

Si discende ancora a un altro piano, e da questo a un altro, in un'aria che vi par sempre più fredda, in un buio che vi par sempre più denso, in un nuovo labirinto di gallerie strettissime, che discendono e risalgono, e s'aprono in bivii e in crocicchi, e s'allargano in ambulacri e in oratori, fiancheggiate di loculi, di bisomi, di cripte, dove al raggio del lumicino vi appaiono altre ampolle di sangue, altri nomi di morbi, altri ossami ammucchiati, e altri occhi di teschi che vi fissano, con quello sguardo profondo che domanda ed aspetta. In alcuni punti i corridoi si restringono, le v?lte s'abbassano, tutti i vani s'impiccoliscono, e par che la terra stia per chiudersi su di voi da ogni parte e seppellirvi vivente; e allora vi prende un senso d'oppressione, e quasi un brivido di sgomento al pensiero di tutta quella solitudine oscura, di tutti quei cimiteri che vaneggiano l'un sull'altro al disopra del vostro capo, di tutti quegli anditi intricati, di tutte quelle fughe di sepolcri, di tutte quelle ombre informi che avete visto allungarsi sulle pareti, di tutti quei passi misteriosi che v'è parso d'udire, di tutte quelle occhiaie vuote che v'hanno guardato. Ma basta anche allora il nome di una fanciulla sconosciuta, con una rozza palma disegnata accanto, e quella semplice aggiunta:-Martire-scolpita a caratteri ineguali nel sasso, a rimettervi nello stato d'animo di poco prima, a ridestarvi tutto quanto di più dolce e di più luminoso avete sentito e sognato nei giorni più puri della fanciullezza davanti alla immagine grande e candida di Cristo. La vostra mente trascorre da quella in cui v'aggirate alle altre necropoli,-alle altre quaranta già dissepolte,-a quelle innumerevoli non ancora esplorate,-spazia per tutta la distesa e a tutte le profondità della enorme città sotterranea che ospitò milioni di morti e abbracciò la cinta di Roma, e sentite la potenza prodigiosa del soffio che di là sotto ha sollevato il mondo, e vi conforta un nuovo e grande pensiero.-Sì, v'è ancora nel mondo un amore immenso e una immensa speranza, nata da quella che raggiò nelle catacombe; la forza maravigliosa che si sprigionò da queste tenebre non è morta negli uomini: essa è solamente sparsa, o inconscia di sè, o compressa; ma si raccoglierà, e saprà, e si espanderà vittoriosa un'altra volta sulla faccia della terra, e rovescierà altri idoli bugiardi, e spezzerà altre catene scellerate, e innalzerà essa pure dei monumenti che sfideranno i secoli, e inneggierà ai suoi martiri nelle lingue di tutti i popoli, e celebrerà le sue vittorie con le feste più poetiche e più solenni che possa concepire la mente umana. Sì, la storia ricomincia, e gli anatemi ai nuovi credenti lo annunziano, perchè non son che un'eco affievolita e paurosa degli oltraggi antichi. ?Exitiabilis superstitio rursus erumpit?.

Questo pensavo, quando un soffio di aria viva mi percosse in viso, il lumicino del frate si spense e sfolgorò il sole....

FINE.

INDICE.

SPERANZE E GLORIE.

PREFAZIONE Pag. VII

Per una distribuzione di premi 3

Per l'inaugurazione di un circolo universitario 10

Per la questione sociale 20

Per il 1.° Maggio 49

Per Giuseppe Garibaldi 87

Per Gustavo Modena 138

Per Felice Cavallotti 150

LE TRE CAPITALI.

AVVERTENZA 182

TORINO 183

FIRENZE 223

ROMA 238

L'entrata dell'Esercito italiano in Roma ivi

La cupola di San Pietro 252

Preti e frati 262

Le terme di Caracalla 272

Un'adunanza popolare nel Colosseo 281

Una mattinata all'albergo 293

Ricordi delle Catacombe 303

                         

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