Chapter 4 No.4

Oltre quelle parti del Duomo e degli altri edifizii sacri delle quali si è già ragionato, solo due architetture profane dei tempi di mezzo hanno resistito alle offese della natura e degli uomini.

Prima che i Lerida e la regina Bianca fondassero sulle rovine del tempio di Basco la Badia di San Placido, i Platamoni, nobilissima famiglia catanese oggi spenta, vi eressero nel XIV secolo le loro case: ne avanza un terrazzo, nel giardino della Badia, decorato esternamente con fasce a zig-zag (chevron), alternate di pietra vulcanica nera e di pietra calcare bianca. Nel centro, dentro una cornice a fogliami, campeggia lo stemma dei Platamoni, e sotto ricorrono quattordici piccole ogive sorrette da altrettante mensole e sotto-mensole: ogni ogiva racchiude graziose sculture a mezzo rilievo, rappresentanti fiori, frutta, conchiglie e teste umane.

BADIA DI SAN PLACIDO - TERRAZZO DI CASA PLATAMONE.

CASTELLO URSINO. (Fot. Gentile).

Il cimelio è interessante; ma senza paragone più notevole è un edifizio rimasto interamente in piedi: quel castello Ursino che Federico II fece erigere da Riccardo da Lentini, architetto militare, contro la città. La vecchia rocca è ancora in piedi, ma quanto mutata dai tempi della sua potenza! La piccola Catania del medio evo ebbe anch'essa qualche giorno di gloria, quando la Corte angioina e l'aragonese vi si fermarono e quando vi si raccolsero i parlamenti siciliani: il castello fu appunto sede dei parlamenti e dei re. Allora esso avanzava in importanza lo stesso palazzo reale di Palermo; perchè, se il soldo dei due governatori era eguale, di trenta onze annue, mentre tutti gli altri della rimanente Sicilia ne riscuotevano soltanto dodici, diciotto o tutt'al più ventiquattro, i servienti o gente d'arme della reggia palermitana erano diciotto, quando il mastio catanese ne contava non meno di trenta. Tanta ne era l'importanza, che i vicerè di Sicilia non ebbero dai re di Spagna la facoltà di nominarne il comandante: il re personalmente provvedeva. Altro singolare privilegio era quello di innalzare due bandiere sulle due torri della fronte settentrionale, una per la val di Noto e l'altra per la val di Démone. Di queste due torri, quella a destra era chiamata appunto della Bandiera, la seconda del Martorio, perchè vi si dava la tortura; le altre due meridionali si chiamavano una della Sala perchè contigua alla gran sala dei Paramenti e l'altra del Magazzino, come adiacente al deposito dei congegni guerreschi. Per una scala cordonata si saliva ai quartieri del piano superiore: dalla porta Falsa si usciva direttamente al mare, che prima dell'eruzione del 1669 batteva il fianco orientale della fortezza. Già gagliarda e reputata addirittura inespugnabile sin dalla fondazione, essa fu ingrandita da Federico d'Aragona di due battifolli, che più tardi, dopo le ricostruzioni del 1554, furono detti di S. Croce e di S. Giorgio: a S. Giorgio era dedicata la cappella costruita sotto la sala dei Paramenti e solennemente consacrata il 22 dicembre 1391 dall'arcivescovo di Monreale, alla presenza dei vescovi di Catania e di Nicastro.

E di quante drammatiche e tragiche vicende furono spettatrici le vecchie mura! Quanti vagiti di regali infanti e quanti gemiti di non meno coronati agonizzanti esse raccolsero! E quante torture di prigionieri e quanti supplizii nella prossima riva del mare, particolarmente ai sanguinosi giorni del Vespro! Qui pose la sua sede Giacomo d'Aragona, il re che ?ascutava tutti e si assittava 'ntra lu curtugghiu di lu casteddu e dava udienza a tutti e facìa la giustizia?. Qui si svolsero quei romanzi di cappa e spada che furono le vite della regina Maria, figliuola di Federico III aragonese, e di Bianca di Navarra, vedova del re Martino: romanzi pieni di innamoramenti, di gelosie, di fughe, di ratti, di congiure, di sollevazioni.... Finita l'indipendenza siciliana, ridotta l'isola ad una provincia spagnuola, la gloria del castello andò rapidamente scemando; poi la natura cospirò contro di lui: le lave del 1669 lo circuirono, ne colmarono i fossi, ne seppellirono le opere avanzate; il terremoto del 1693 lo rese inabitabile, quello del 1818 gli diede il colpo di grazia. Restaurato dopo i moti del 1837 contro la ribelle città, fu purtroppo rovinato come opera d'arte architettonica, e da allora ad oggi la rovina è continuamente cresciuta. Il primitivo scheletro, nondimeno, si rivela ancora nei muri grossi circa tre metri, alti più che 30, lunghi 63 per lato; nelle v?lte a crociera del vestibolo e delle sale inferiori delle torri; nelle robuste ogive impostate sui capitelli romanici delle colonne incastonate negli angoli dei muri; nella bellissima scala a chiocciola che lungo la piccola torre centrale porta al cammino di ronda. La decorazione esterna è quasi tutta distrutta; non restano se non, all'entrata, una piccola nicchia con arco trilobato, nella quale si vede un uccello strozzato - a giudizio dello Sciuto Patti alludente, come la decorazione della porta del Santo Carcere, alla punizione inflitta da Federico di Svevia alla città - e l'intarsio del Pentalfa o Pentagramma sulle finestre di levante: prova, a giudizio dello stesso archeologo, della cieca fiducia che lo Svevo riponeva nei cabalisti e nei loro segni, leggendosi nel libro di Saba Malaspina che il re, ?mentre con sottili investigazioni indagava i segreti della natura, per modo onorava gli astrologi, i negromanti e gli aruspici, che, secondo le divinazioni ed auspici loro, il suo leggerissimo pensiero, a guisa di vento, or di qua ed or di là con celere moto vagava?.

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